A dispetto della delicatezza suggerita dal titolo, “Something Soft”, il nuovo album dei M(h)aol si apre come uno squarcio netto, una ferita sonora che pulsa urgenza, distorsioni, vibrazioni e disagio. È un disco che non accarezza, ma graffia. Un tentativo audace di dare forma e consistenza al caos sottile e incessante che sembra avvolgere le nostre scialbe esistenze quotidiane, impedendoci di respirare a pieni polmoni, di riconoscerci nel riflesso di ciò che siamo stati e forse potremmo ancora essere.

La band irlandese si muove in bilico tra punk nervoso, art-rock sghembo e spoken word veemente, per costruire un rituale di resistenza sonora contro una realtà sempre più omologata e anestetizzata. Il disco racconta, attraverso il ritmo ossessivo e le distorsioni taglienti, la lenta dissoluzione dell’essere umano come creatura pensante, unica, singolare e specifica. Stiamo scomparendo — ci stiamo lasciando risucchiare in un magma indistinto, una superficie lucida e riflettente, liscia e sterile, sulla quale però non è più possibile scorgere la nostra immagine, ma solamente il prodotto perfetto e inodore di una manipolazione algoritmica. È una maschera digitale, levigata per aderire, con fluidità, ai protocolli imposti dalla dimensione virtuale dei social media, un volto senza lineamenti che dice tutto e nulla allo stesso tempo.
Di fronte a questo appiattimento, i M(h)aol reagiscono con brani che ammaliano e che disturbano, in cui ritmi accattivanti e talvolta volutamente ripetitivi rimandano a quella ciclicità artificiale e tossica che plasma le nostre giornate. È una ripetizione ipnotica che simula il movimento, ma che, in realtà, ci tiene fermi, bloccati nel loop di un eterno presente digitale, privandoci della ciclicità autentica della vita e delle stagioni — quell’alternarsi spontaneo che, in passato, assegnava senso al tempo e ai luoghi, e che ora rischia di svanire sotto il peso di una rete globalizzata, inquinata, alterata e continuamente manipolata.
Il disco si muove come una lunga corsa a ostacoli, tra tensioni ed aperture, tra invettive e momenti di confessione intima, fino a dissolversi nel brano finale, “Coda”, che cade, come un cielo plumbeo, sulle macerie di ciò che eravamo. Resta il rumore di fondo, il sibilo ipnotico e dispotico dei chip elettronici, un lamento sommerso che si insinua tra i resti delle nostre piccole gioie, dei sentimenti autentici, delle emozioni senza filtro. In quell’ultima traccia sembra di percepire il suono del mondo che si spegne, lasciando dietro di sé solo eco distorte di un’umanità in frantumi. “Something Soft” è, in fondo, il paradosso del suo stesso titolo: un lavoro duro, spigoloso, necessario, che non offre rifugio, ma semmai costringe a prendere posizione, a resistere, a ricordare di essere ancora degli esseri umani.