Il pavimento è crollato, e sotto non c’è nulla se non il vuoto, le rovine polverose di un palazzo psichedelico che, un tempo, prometteva visioni e viaggi mentali, e che, oggi, gli a/lpaca — con le loro poderose e sfrontate onde sonore — hanno deciso di radere al suolo senza pietà. Nessuna nostalgia, nessun rimpianto. Solo macerie elettriche e feedback incandescenti, che si mescolano all’odore ferroso del caos.

Dentro questo collasso controllato si agitano trame neo-psichedeliche, che non hanno paura di evolvere, di divagare, di sconfinare, di perdere la bussola e di dimenticare le loro coordinate naturali. È un territorio aperto dove punk-rock, garage, kraut-rock e schegge impazzite di space-rock si stringono la mano per poi accoltellarsi alle spalle, in un rituale sonoro che abbatte regole e confini, trascinando via tutto: strutture, teorie, modelli prestabiliti, formule imposte da chissà chi, chissà quando, in nome di una presunta idea di normalità. Ma non esiste alcuna normalità nel mondo dissonante e selvaggio degli a/lpaca. E, in fondo, non esiste nemmeno più nel nostro, se non nella forma di una triste convenzione sociale, buona solo a soffocare impulsi e desideri autentici. La band mantovana questo lo ha capito bene, “Laughter” è un’esplosione viscerale e necessaria, uno schiaffo ironico e urlato al nostro presente anestetizzato, una musica che gronda verità, anche quando essa fa male, anche quando si fa corrosiva per le nostre comode e rassicuranti certezze.
C’è un’aria da no-wave anni ’80 in questo disco, quella più febbrile e indisciplinata, quella di quel Lower East Side lurido e incandescente, dove le chitarre diventavano coltelli sonori ed i sintetizzatori sembravano sputare veleni cosmici. Gli a/lpaca raccolgono quella lezione, ma la rivoltano, la contaminano con le loro visioni prog-rock acide e lisergiche, con sprazzi di elettronica vintage e un’urgenza punk che non concede alcuna tregua. Ascoltarli è come leggere i versi allucinati di Gregory Corso o le tirate febbrili di Kerouac sotto anfetamina, quando la scrittura diventa trance e delirio lucido, un tentativo disperato di mappare l’inferno contemporaneo con gli unici strumenti rimasti: una chitarra sbrindellata, un synth, una batteria sciamanica e una voce che non ha paura di perdersi nel rumore.
“Laughter” è la memoria di quello che siamo stati e il tentativo onesto, rabbioso, disilluso, di ripensare il nostro stare al mondo. Tra suoni storti, disallineati, sbilenchi eppure potentissimi, il disco ci invita a uscire dai tunnel, dai bunker emotivi, dai labirinti di norme e di retoriche, a recuperare la dimensione rituale e relazionale della musica come atto collettivo e liberatorio. Non importa se ciò sarà rumoroso, sbagliato, caotico o fuori moda. Anzi, più sarà storto, più sarà vero. E in questo tempo di unidirezionalità forzata, qualsiasi cosa che suoni così disperatamente viva merita di essere ascoltata e vissuta. Un disco, quindi, non per chi cerca rifugi, ma per chi vuole bruciare i rifugi e ballare sulle loro rovine.