Con “I Quit” le sorelle Haim voltano una pagina importante del loro percorso musicale. Dopo il successo del precedente “Women in Music Pt. III” (2020), acclamato per il suo equilibrio tra pop sofisticato e introspezione indie, ci si chiedeva quale direzione avrebbe preso il trio californiano. La risposta è arrivata chiara e decisa: meno compiacente, più emotiva, più grezza nel suono e più coraggiosa nel messaggio. “I Quit”, del resto, non è solo un titolo provocatorio, ma una vera e propria dichiarazione d’intenti. A livello tematico, infatti, non si tratta tanto di una resa quanto di un abbandono consapevole: lasciare ciò che non funziona più, smettere di rincorrere aspettative esterne, tagliare legami stanchi. Il tutto raccontato con una maturità che non ha bisogno di slogan, ma si affida alla forza del non detto, del silenzio tra le note, alla scelta di tagliare anziché aggiungere.

Credit: Terrence O’Connor

Dal punto di vista sonoro, l’album abbandona in parte le patinature vintage che avevano contraddistinto i lavori precedenti. Certo, c’è ancora quel gusto retrò che le ha rese riconoscibili, ma ora è molto più sottile e al servizio di una produzione più sobria e atmosferica. Le chitarre sono spesso essenziali, le ritmiche trattenute, le armonie vocali più intime che corali. Sì, insomma, la band californiana è come se avesse abbassato la luce nella stanza per raccontare meglio cosa succede fuori quando nessuno guarda. I momenti più riusciti? “Gone”, brano di apertura, imposta subito il tono: si tratta di un lento crescendo emotivo, con un arrangiamento che sembra espandersi a ogni strofa, fino a esplodere in un ritornello amaro e liberatorio. “Down to Be Wrong”, invece, è forse il pezzo più emblematico del disco: il suo ritornello disarmante (“I’d rather be wrong than lie to myself“) è una dichiarazione di vulnerabilità che suona più potente di qualunque invettiva. “Cry” e “The Farm” affondano le radici in un folk scarno ma evocativo, mentre “Spinning” è l’eccezione ritmica che funziona: un pezzo disco-funk con venature malinconiche, utile per spezzare la tensione emotiva senza snaturare il percorso del disco.

Dal punto di vista lirico, le Haim si confermano narratrici acute e sincere. Non c’è alcuna patina poetica forzata: le parole sono semplici, quotidiane, e proprio per questo incisive. Il dolore è raccontato con onestà, ma senza vittimismo; la rabbia è presente, ma misurata. In un panorama pop dominato da iperbole e artifici, questo approccio diretto è quasi rivoluzionario. Quel che manca? Forse un momento davvero esplosivo, un brano che possa reggere da solo l’intero album in termini di memorabilità. Alcune tracce— come “Lucky Stars” o la stessa “Maybe Next Life”— pur essendo coerenti nel tono, rischiano di scivolare via senza lasciare un’impronta forte. Ma questa è anche una scelta estetica: “I Quit” non è un album da singoli, ma un corpo unico, da ascoltare come si legge un diario personale.

Provando a tirare le somme, dunque, potremmo definire “I Quit” come il disco della sottrazione, del passo indietro che serve per fare spazio. Non è un album urlato né pensato per stupire. È un’opera matura, silenziosa e consapevole, in cui le Haim si spogliano delle sovrastrutture e trovano una nuova voce: più fragile, sì, ma anche più autentica. Non tutti lo ameranno al primo ascolto, e forse proprio per questo durerà nel tempo. È musica per chi ha capito che lasciar andare, a volte, è la forma più pura di evoluzione.