Altra band irlandese che negli ultimi tempi ha attirato una crescente attenzione, i NewDad tornano con il loro secondo album, “Altar”, un lavoro che amplia le coordinate sonore tracciate con l’esordio “Madra“, uscito all’inizio del 2024 e accolto positivamente dalla critica che aveva elogiato la sorprendente maturità compositiva della band, nonostante la giovane età dei suoi componenti. Originari di Galway, sulla costa occidentale dell’Irlanda, i NewDad si sono formati tra i banchi di scuola, prima di iniziare a pubblicare i primi singoli durante la pandemia. Il loro sound si muove tra dream pop, shoegaze e indie rock.

Al centro del progetto c’è la voce eterea e malinconica di Julie Dawson (voce e chitarra), frontwoman carismatica e principale penna del gruppo. Al suo fianco Sean O’Dowd alla chitarra e Fiachra Parslow alla batteria, a completare una formazione essenziale ma solida.

Credit Peter Eason Daniels

Se “Madra” era un disco nato dal cuore dell’adolescenza – un’esplorazione intima delle insicurezze, dei turbamenti interiori e dei primi dolori emotivi di Julie Dawson – “Altar” segna un passaggio più maturo e disilluso.
Le emozioni restano centrali, ma il contesto cambia: i brani del secondo album parlano della nostalgia per Galway, della difficoltà di adattarsi alla vita a Londra, della pressione del cambiamento e della tensione tra ambizione e appartenenza.

Il disco si apre appunto con “Other Side”, un brano che cresce lentamente in cui le chitarre e soprattutto la batteria pulsante trasmettono un senso quasi fisico di ansia, come se l’emozione volesse fuggire via mentre il corpo resta intrappolato. Quel ritmo crescente evoca perfettamente quella sensazione di trovarsi in un luogo che non si sente proprio, ma che, come recita il testo stesso, “non mi lascerà andare“.

Questo secondo album amplia il loro universo sonoro e affronta nuove sfumature emotive: “You can do what you want with me” canta Julie Dawson, con voce controllata ma carica di rassegnazione in “Heavyweight”. La batteria incalzante e il basso cupo creano un’atmosfera tesa ma danzabile. Qui la band spinge sul lato più ritmico e oscuro del loro sound, con un groove che richiama le piste da ballo post-punk/dark wave degli anni ’80.

La ripetizione insistente della parola “hate” nel testo di “Roobosh” imprime al brano un tono drammatico e liberatorio: incalzante costruito su quattro accordi che si ripetono per tutta la durata, il pezzo si muove in modo circolare, quasi ipnotico, ma senza mai perdere tensione.

I momenti delicati non mancano.
“Pretty” esalta il contrasto tra la tensione trattenuta delle strofe e l’apertura emotiva del ritornello. Nelle strofe, basso e batteria lavorano in tandem creando un’energia composta, quasi trattenuta ma poi arriva il ritornello, e tutto si apre: la voce di Julie Dawson si fa soave, aerea, mentre la chitarra disegna ricami melodici che riportano alla mente i momenti più teneri e malinconici degli Smiths, un richiamo in particolare a Johnny Marr, per quell’equilibrio perfetto tra brillantezza e malinconia.

Immerso e perso nella visione del paesaggio spettacolare in cui è stato girato il video di “Pretty”, mi è tornata in mente l’esperienza di una coppia di amici che, qualche anno fa, si trasferì a Galway. Lui, fresco di conservatorio, portò il suo violoncello con sé sull’aereo. Lo strumento occupava un posto tra i passeggeri, forse quello vicino al finestrino. Non gliel’ho mai chiesto, ma appena lo rivedrò e spero presto, mi riprometto di scoprirlo.
Partito con un posto di lavoro assicurato grazie alla sua laurea in biologia, si ritrovò ben presto a lavorare nei supermercati Tesco, nel reparto controllo qualità. Una sorta di Malaussène improvvisato, a dover sorbirsi le lamentele dei gentili abitanti del luogo.

Ci devo andare a Galway, prima o poi. Soprattutto adesso, che i NewDad mi hanno contagiato con la loro nostalgia.

“Mr Cold Embrace” è uno dei momenti più delicati e toccanti dell’album, un brano che gioca tutto sulla delicatezza e sul vuoto emotivo. Che siano archi veri o campionati, poco cambia a livello percettivo: funzionano benissimo . Posizionato in una fase centrale del disco, segna una pausa profonda, un momento di riflessione malinconica prima del tratto finale.
La voce di Julie Dawson si fa fragile, sfiorando il sussurro.  Il “freddo abbraccio” come metafora della città, forse Galway o forse Londra.
È una lettura che si lega benissimo ai temi ricorrenti del disco, il sentirsi fuori posto, il desiderio di casa, ma anche il legame affettivo con luoghi che ti hanno formato.

“Misery” è un brano che sorprende, ti confonde ed è proprio quello che cerca di fare: il testo parla proprio di quella sensazione di disagio che ti trascina giù, della tendenza a restare nella sofferenza anche quando si vorrebbe uscirne.  Il pezzo si sviluppa con una tensione crescente: il ritornello è graffiante, con chitarre spigolose e una ritmica incalzante, ma è il ponte melodico che lo precede a dare davvero forza al climax, creando un contrasto che amplifica l’impatto emotivo.

La sensazione di trovarsi sott’acqua, in uno spazio ovattato dove ogni movimento è rallentato è il punto caratteristico di “Sinking Kind of Feeling”. Il ritmo, quasi da marcetta militare, ha qualcosa di ipnotico, come un battito che si ripete con ostinazione e che, paradossalmente, ti tiene a galla mentre “Puzzle” si muove con una tensione crescente, finché nel finale tutto si contrae, la melodia del cantato assume tutta un’altra energia, qui si sente la tristezza, la rassegnazione.

“Entertainer” racconta cosa significa vivere dentro una maschera: essere visti, ma non davvero guardati; ascoltati, ma non capiti. A un primo ascolto, il brano può sembrare più leggero rispetto al resto dell’album, quel ritornello apparentemente giocoso, in realtà non ti mette a tuo agio. La chitarra che ripete le note della melodia non si apre lucente ma si chiude, un’eco che amplifica il senso di alienazione.

Il lungo viaggio da Galway a Londra prosegue, e ora che siamo entrati nella parte finale del disco, devo ammettere che mi sta coinvolgendo sempre di più.
“Everything I Wanted” ha davvero tutte le carte per essere una potenziale hit, ma non nel senso banale del termine. La scelta di posizionarla verso la fine del disco sembra voluta, come un punto di equilibrio dopo tanta inquietudine.
Con un finale riuscito e un testo che invita a guardarsi dentro, quasi fosse un bilancio personale, il brano riesce a essere profondo pur mantenendo una melodia limpida e immediata.

Anche “Vertigo” si traveste in uno di quei pezzi che sembrano più leggeri in superficie, con una produzione più accessibile, quasi “radiofonica”, ma che nascondono un nucleo emotivo molto forte e il cambio di energia tra strofe e ritornello che ne caratterizzano la struttura.
Ed eccoci alla fine dell’album, “Something’s Broken” è il momento più intimo dell’album, un brano che chiude alla grande e in maniera elegante il disco.
Close my eyes, keep me distracted / Hold my hand so I can stand it” 

Questo disco va ascoltato non solo lasciandosi trasportare dall’emozione indotta dal flusso musicale, ma anche intrecciando le liriche, i testi, che aggiungono un ulteriore livello di profondità.
Il risultato è un ascolto che riempie i nostri spazi interiori, dando la sensazione che ogni brano custodisca qualcosa destinato a svelarsi solo nel tempo.

“Altar” non è un disco che si concede al primo ascolto: entra in punta di piedi, ma può rubare attimi speciali del nostro tempo. È il tipo di album da riscoprire quando le prime foglie iniziano a cadere, il cielo si tinge di grigio e la pioggia scende leggera e insistente. Un po’ come tornare a Galway, un po’ come sentirsi, anche solo per un momento, di nuovo a casa.