Con “A Wonderful Life” Tom Odell sembra volerci ricordare che la malinconia può essere un luogo abitabile. Non è solo un’emozione, ma uno spazio in cui si può camminare a piedi nudi, inciampare, restare in silenzio e – inaspettatamente – trovare anche qualche scintilla di luce. Questo settimo album in studio non reinventa la formula del caro vecchio Tom, ma la affina: la voce resta fragile e intima, il pianoforte è ancora il suo fedele compagno, ma tutto suona più consapevole, più maturo. È come se, dopo anni passati a raccontare il dolore, Odell avesse capito che c’è anche una forma di pace nel lasciarlo andare.

Il viaggio sonoro comincia con “Don’t Let Me Go”, e non potrebbe esserci apertura più sincera. Il brano è una sorta di supplica, ma senza melodramma: l’artista britannico lascia spazio ai vuoti, alle crepe, a quel bisogno disperato di restare aggrappati a qualcosa – o a qualcuno – mentre tutto sembra scivolare via. “Don’t Cry, Put Your Head On My Shoulder”, invece, è un abbraccio sotto forma di canzone: morbida, accogliente, costruita su pochi elementi ma con una tensione emotiva che cresce piano, come le lacrime trattenute troppo a lungo. “Prayer” gioca con l’essenzialità, sembra quasi sospesa, quasi un sussurro che si fa riflessione. E poi c’è “Can We Just Go Home Now”, che ha tutto il sapore di una fuga emotiva: un desiderio semplice e struggente, quello di chi non cerca risposte, ma solo un posto in cui respirare.
Ecco, se in passato Tom Odell scriveva canzoni per sopravvivere, ora sembra scriverle per capire. In brani come “Why Do I Always Want The Things That I Can’t Have” (Sì, il buon Tom ha la predilezione per i titoli lunghissimi) si avverte tutta l’inquietudine di chi si sente sempre un passo indietro rispetto alla vita che vorrebbe. “Wonderful Life” – che dà anche il titolo al disco – è l’episodio che sorprende di più: non perché sia felice (tranquilli, non lo è), ma perché, per un attimo, lascia intravedere una gratitudine sottile, quasi timida. “Ugly” torna a scavare dentro, senza pietà, ma con onestà disarmante, mentre “Strange House” ha un’atmosfera più rarefatta, onirica, come se ci portasse a camminare in una casa dei ricordi dove ogni stanza ha un’eco diversa. Verso la fine arriva “Can Old Lovers Ever Be Friends?” e con quella sola domanda Odell riassume tutto: l’ambivalenza dei legami, l’impossibilità di archiviarli del tutto, il tentativo goffo – e spesso vano – di trasformare le cicatrici in dialoghi civili. Non una fine vera, semmai una tregua. La sensazione, ascoltandola, è che il musicista trentaquattrenne non abbia trovato tutte le risposte, ma abbia fatto pace con il fatto che alcune domande resteranno aperte. E va bene così.
In definitiva, “A Wonderful Life” è un disco che non cerca di stupire a ogni costo, ma che si lascia scoprire con lentezza. Non è immediato, non urla per farsi notare, e forse proprio per questo riesce a parlare in profondità. La malinconia qui non è un vezzo artistico, ma una lente con cui osservare il mondo – e ogni tanto, attraverso quella lente, si scorge anche qualcosa di bello. Non un capolavoro epocale, ma un album sincero, umano, dove la tristezza e la speranza convivono senza darsi fastidio. E nel panorama affollato di cantautori che parlano (male) dei propri sentimenti, Tom Odell continua a essere uno dei pochi capaci di farlo davvero.













