Un album intriso di Sicilia, di quella luce che non consola, ma brucia, che scava nei volti e nelle parole come il sole sul tufo antico. “Amuri Luci” è un disco che vive fuori dal tempo, come una pietra immersa nel mare, levigata dalle onde e mai corrotta. Non conosce mode, non corteggia il mercato e le sue tendenze transitorie. Preferisce, invece, restare fedele alla sua natura di testimonianza umana, di canto sacro e terreno, di invocazione e di denuncia.

Credit: Paolo Leone

Carmen Consoli torna con un linguaggio che appartiene più alle radici, che al presente, e lo fa con la consapevolezza di chi sa che il futuro nasce solo se si è capaci di ricordare. Nel suo mondo sonoro convivono l’arcaico e il moderno, il sacro e il profano, la carezza e il coltello. Gli antichi miti dormono nella nostra memoria ancestrale — e la cantantessa catanese tenta di risvegliarli, di restituire loro la voce, di rimettere in circolo la linfa di un Mediterraneo che è stato culla e tomba, madre e carnefice.

Il Siciliano, il Latino, il Greco: lingue che sono ritenute inutili, ma solamente da coloro che hanno smesso di ascoltare. In “Amuri Luci” esse tornano vive, pulsanti, incarnate nei ritmi, nelle melodie, nei racconti che si fanno preghiera e sussurro. Ogni parola è un’isola umana, un frammento di un arcipelago interiore che resiste alle maree del tempo. Eppure, dietro tanta bellezza, serpeggia un dolore antico: quello degli istinti feroci che abitano l’uomo. Istinti predatori che, oggi più che mai, alimentano la guerra, l’odio, il razzismo, l’indifferenza. Carmen li guarda in faccia e li canta, come un’eco di tragedia greca, come una Cassandra che ancora tenta di avvertire un mondo sordo e malvagio.

Viviamo in un’epoca di nazionalismi e di sovranismi che si travestono da orgoglio, ma che, in realtà, nascondono paura e smarrimento. Dimentichiamo il mare comune, il patrimonio culturale condiviso, e lasciamo che uomini folli — criminali che dovrebbero essere giudicati, resi inoffensivi e non glorificati — esercitino il proprio potere in nome di menzogne, di ideologie perverse, di economie corrotte e di confini che continuano a violare ed insanguinare.

È sempre lo stesso mare, quello dei nostri padri. Un mare che non abbiamo ancora imparato ad ascoltare. Un mare dove il sangue si mescola all’acqua e il sale tenta, invano, da secoli, di rimarginare ferite che l’uomo continua a riaprire con la sua stessa violenza ed arroganza. Quante volte dovremo ancora vedere despoti dalle mani sporche di sangue? Quante volte le bugie e i silenzi dovranno farsi verità di Stato? Quanti innocenti dovranno essere spazzati via dal vento crudele di un ennesimo genocidio?

In questo scenario Carmen Consoli costruisce un ponte, una lingua di terra tra i popoli. La sua Sicilia non è solo una regione: è una visione del mondo, una geografia dell’anima. Da ogni fiume ad ogni mare, da Catania a Teheran, dalle macerie di Gaza ai palazzi andalusi, “Amuri Luci” diventa un atto d’amore universale. Sintesi e svolta di un cuore che è tre cuori assieme — latino, greco e arabo — e forse infiniti cuori in uno solo. E come il poeta Ennio, che diceva di avere tre cuori perché parlava tre lingue diverse, Carmen Consoli sembra ricordarci che l’identità non è chiusura, ma molteplicità di mondi. Ogni lingua è un battito, ogni cultura un respiro. In un tempo in cui l’odio divide, lei sceglie di essere ponte, mare, eco. In “Amuri Luci”, la musica è una preziosa fonte di luce. E, come la luce siciliana, può accecare o salvare.