Un approccio più diretto a musica e testi quello di Peter Silberman e Michael Lerner in “Blight”, settimo album a quattro anni di distanza da “Green To Gold” del 2021. Nove brani che fanno i conti con le nuove tecnologie sempre più invasive, le conseguenze del cambiamento climatico e delle scelte di ogni consumatore affidandosi ad arrangiamenti eclettici e avventurosi.

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Un disco ispirato in buona parte dalle lunghe passeggiate fatte da Silberman nei dintorni dello studio di registrazione a Field’s Edge (Ulster County, New York) tra campi coltivati che gli hanno suggerito l’idea, suggestiva e familiare, di un mondo abbandonato e in pericolo.

Every bargain has a hidden cost: what was saved? what was lost?” sussurra nell’intensa “Consider the Source” ballata piano, voce, con la batteria di Lerner, leggera, delicata in sottofondo. Un inizio accorato, elegante, prezioso nel suo essere consapevole dello spazio sonoro. Senso della misura evidente anche in “Pour” sensibile e partecipato resoconto di un disastro ambientale del passato.

“Carnage” lucida, animata roadkill ballad e la title track, brano indie folk dall’indole sperimentale soprattutto nel drumming di Lerner, con le sue immagini di alberi spogli, scheletrici,  esprimono una vulnerabilità che culmina in “Something in the Air” fragile tempio di mille paure e raccomandazioni con una  parte centrale grintosa e sorprendente, un finale che riprende il filo etereo della delicatezza.

Un senso di ineluttabilità  permea “Deactivate” dove l’ordinario diventa in un attimo apocalittico eppure mai drammatico, in un crescendo quasi angelico di parti vocali sovrapposte, piano, molta  raffinatezza, la stessa di “Calamity” che col suo “Over calamity we climb, sure we’ll get this right next time” racchiude il senso dell’intero disco.

I The Antlers ripartono dal folk di “Green To Gold”, lo rielaborano, costruiscono mondi sonori vividi e interessanti, viaggiano tra tempo e spazio per approdare in una “A Great Flood” biblica e pastorale, che s’interroga sul perdono e gli errori fatti. Il finale affidato a “They Lost All of Us” è cinematografico e riflessivo, solo piano e campionamenti di uccellini che cantano, macchine che passano, mentre scorrono i titoli di coda di un disco di grande spessore e profondità.