La nostra intensa intervista con la band di Dublino, in occasione del loro concerto di Roma, ci permette di mettere meglio a fuoco e consolidare i tratti distintivi del percorso degli SPRINTS, soprattutto dopo il grande successo del loro debutto “Letter to Self“.

Innanzitutto la line-up ha subito una piccola (o grande) variazione con l’innesto del nuovo chitarrista Zac Stephenson che oltre a tanto formaggio ha portato una ventata di novità tale da far affermare a Karla Chubb:

…siamo diventati quasi una nuova band. E’ stata una rinascita, ci ha dato nuova energia, per noi è stata una possibilità per ricominciare di nuovo.

Sam McCann (basso/voce) e Jack Callan (batteria) restano saldamente al timone del ritmo mentre Daniel Fox (bassista dei Gilla Band) torna in cabina di regia anche per questo secondo disco.

Pubblicato ancora una volta dall’etichetta tedesca City Slang, che ha creduto negli SPRINTS sin dai primi concerti, “All That Is Over” prende il titolo da una poesia di Vladimir Holan, ed è un’espressione ambigua che compare anche nella canzone “Beg”. Un titolo che può suggerire tanto una chiusura quanto un nuovo inizio: la fine di un capitolo e, al tempo stesso, l’apertura di un altro.

Credit: David Willis

Non c’è stato molto tempo per dedicarsi alla scrittura dopo l’uscita del debutto: il tour ha portato la band in giro per il mondo, aprendo per nomi come Idles e Pixies e calcando i palchi dei festival internazionali più importanti, Glastonbury su tutti.

Eppure, in soli quattro mesi, tra un concerto e l’altro, tra soundcheck e spazi rubati al riposo, la band ha composto queste undici nuove canzoni.

Brani che mostrano una scrittura più consapevole e un suono forse meno abrasivo rispetto agli esordi, ma ancora potente, graffiante, profondamente viscerale.

Al centro di tutto resta Karla Chubb, la cui scrittura tagliente e interpretazione profondamente umana danno forma e direzione all’intero progetto. La sua capacità di raccontare disagio, rabbia, fragilità e desiderio di riscatto è ancora uno degli elementi più forti dell’album.

Nonostante la rapidità con cui è nato, il nuovo lavoro degli SPRINTS non ha nulla di affrettato o lasciato al caso. Al contrario: le undici tracce che lo compongono mostrano una scrittura densa, un’attenzione costante al dettaglio e, ciliegina sulla torta, una varietà di spunti musicali che, pur restando nel loro stile classico, riesce ancora a sorprendere.

L’album si apre con due brani che costruiscono fin da subito un’atmosfera cupa, inquieta, quasi claustrofobica. “Abandon” parte con un colpo secco, probabilmente un tom, o un rullante ovattato, che pulsa come un battito costante, quasi ossessivo, accompagnandoci per tutta la durata del brano.

È una presenza ritmica minimale ma insistente, che ci trascina dentro un mondo teso, chiuso, dove la voce di Karla sembra porci una domanda non detta ma chiarissima: “Vuoi davvero sapere chi sono?

“To The Bone” prosegue su questa linea che unisce buio e tensione. La chitarra, con quelle note ripetute e tese, costruisce un’atmosfera quasi irreale, un misto tra mistero e angoscia palpabile. È come sentire il freddo nelle ossa, quel gelo sottile che si insinua mentre si intuisce che qualcosa sta per accadere. E infatti, a metà brano, arriva l’esplosione: le dinamiche si alzano di colpo, tutto si apre in un urlo sonoro che non lascia dubbi. Gli SPRINTS non ci stanno invitando a una passeggiata.

Dopo quest’apertura cupa e trattenuta, l’album prende slancio con una tripletta che racchiude l’essenza elettrica della band: “Descartes “, Need” e “Beg” incarnano l’energia viscerale che da sempre contraddistingue gli SPRINTS.

Karla urla, graffia, ma non perde mai il controllo; la sua voce resta il perno attorno a cui tutto si muove, guidando la band in un crescendo familiare ma mai prevedibile.

Forse è quel riff garage che accende subito l’atmosfera, o forse è la voce sorniona con cui Karla apre il brano, ma “Rage” si guadagna facilmente un posto tra i miei preferiti. C’è qualcosa di magnetico in quel gioco di tensione trattenuta, che poi, e qui non sorprende, esplode in un finale tra i più adrenalinici dell’album.

Nella seconda parte del disco, “Pieces” e “Coming Alive” spiccano per l’impatto emotivo tanto quanto per l’energia sonora. “Something’s Gonna Happen“, invece, è forse il brano meno incisivo del lotto. Si muove su coordinate più lineari, meno taglienti, e proprio per questo fatica a lasciare il segno nonostante un finale carico di rabbia e sentimento.

Il finale ci regala un paio di brani che, da soli, valgono il prezzo del biglietto. “Better” colpisce con l’intensità della doppia voce Karla/Sam, che si sovrappongono creando un effetto quasi ipnotico, mentre la chitarra lamentosa e distorta, si appoggia su un giro di basso perfettamente centrato. È impossibile non pensare ai migliori Pixies: gli SPRINTS ne evocano il suono ma anche l’attitudine, ormai assimilata e fatta propria con sorprendente naturalezza.

“Desire” chiude l’album nel migliore dei modi: si apre con un arpeggio inaspettato, dalle tinte flamenco, poi si dilata e si trasforma in oltre sei minuti di costruzione stratificata e in continua evoluzione. È un brano ambizioso, che conferma quanto la band sia in piena trasformazione.

Anche il recente cambiamento di formazione ha probabilmente aperto nuove possibilità compositive, fondamentali per una band che non può e non deve adagiarsi su coordinate già rodate, ma che rischierebbero di inaridirsi senza nuove fonti d’ispirazione.

Se questo è il modo in cui gli SPRINTS chiudono un album, viene da chiedersi con che forza apriranno il prossimo!