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Viviamo in un’epoca di incertezze, di contraddizioni, dove il nostro stesso linguaggio ci inganna e ci condiziona; tra nevrosi e desensibilizzazione, Lele Battista ha creato un progetto ibrido (anzi, un diario intimo) che pone al centro la ricerca di verità e di catarsi: “Iscream”, uscito per The Saifam Group. Un lavoro che unisce la tradizione cantautorale italiana, sperimentazioni con la musica elettronica e una sensibilità contemporanea e internazionale, con un linguaggio essenziale. Punte di diamante del disco sono l’ipnotica “La mia felicità” e “Frammenti”, a cui Andy dei Bluvertigo ha offerto il suo contributo di sax e voce; dopo oltre venticinque anni di carriera tra i La Sintesi e i progetti solisti, insomma, LeLe Battista ha dimostrato che il suo percorso artistico è più attivo che mai, esponendosi tra fragilità personali e dubbi sulla comunicazione umana.

Ne abbiamo parlato direttamente con l’artista, che ci ha raccontato la genesi del disco, i suoi pensieri sul tempo che scorre, sulla musica e sul linguaggio.


Ciao Lele, congratulazioni per l’uscita dell’album!. Come ti senti?
Mi sento un po’ nudo, in un certo senso: le canzoni finora erano solo per me, sono sempre state “maneggiabili”; ora che sono uscite non è più così, però questa perdita di controllo mi piace un sacco, perché mi costringe a guardare avanti, al prossimo passo. Avevo proprio bisogno di liberarmi di questo progetto che porto avanti da quattro anni, tra scrittura e realizzazione. Ho scoperto che non riesco a fare troppe cose contemporaneamente: lavoro anche come produttore, musicista e registratore per altri, ma per fare il mio disco ho bisogno di occuparmi solo di quello. Quindi l’ho realizzato a blocchi, in periodi ben definiti.

Innanzitutto sono molto felice di averlo portato a termine. Stamattina mi hanno ricordato che il mio esordio risale a 26 anni fa: il primo album della mia band è stato pubblicato nel ’99. Ogni volta fare un disco mi sembra un lavoro monumentale e ripenso a tutte le energie che ho messo in gioco. Da una parte ho voglia di concentrarmi su materiale nuovo; dall’altra ho paura di non riuscire a rifare lo stesso percorso, di portare a termine un altro progetto così grosso. La realizzazione richiede tempo ed energie, ma per me sono energie vitali: è una forma di espressione fondamentale. Mi sento fortunato a poterlo ancora fare e ad aver trovato un’etichetta che ha stampato il disco e segue il progetto con lo stesso entusiasmo che ci metto io.

A tal proposito, in un’intervista del 2016 (quasi dieci anni fa) dicevi: “bisogna far pace con il fatto che la musica ha smesso di essere un business, almeno per i musicisti, da almeno 15 anni”. Pensi sia cambiato qualcosa o rivedi la stessa situazione?
Assolutamente la stessa situazione, io ho proprio assistito al crollo di un’industria. C’era un’economia totalmente diversa, ma oggi c’è un’altra cosa che mi spaventa, ancor più dell’aspetto economico: la perenne sovra informazione musicale in cui viviamo. Escono così tanti dischi che è davvero difficile essere ascoltati in profondità. L’aspetto economico lo superi con la passione; ma la sovrapproduzione rende improbabile un ascolto attento. Detto questo, stamattina tante persone (conoscenti e non) mi hanno espresso affetto per quello che scrivo, il che mi onora e mi conforta, anche se è un gruppo ristretto. Io, come ho sempre detto, metto al centro la canzone più ancora della musica: per me la canzone è catartica, ed è innanzitutto fatta per me, fa parte della mia educazione. Sono cresciuto con i cantautori che hanno fatto la grande rivoluzione di inserire la letteratura nella canzone, e quello continua a essere il mio motore. La canzone è una cosa strana: se mi chiedi di definirla, so dire cosa non è, ma non so dire con precisione cosa sia. È un’arte che unisce musica, letteratura e filosofia: le tre discipline che pratico di più nella mia vita, come una palestra quotidiana.

E qui rientra anche il tema dell’intelligenza artificiale: dedichiamo una parte della nostra attenzione alle creazioni fatte con quella roba lì, il che è destabilizzante; dall’altra parte non può che stimolarmi (anzi, stimolarci) a produrre nuovo pensiero e nuovi modi di produrre qualcosa di nuovo. Non mi preoccupa ciò che l’IA non può fare, non può creare dal nulla nel vero senso; può fornire informazioni, riassemblare ciò che l’uomo ha creato. L’umano, invece, ha la possibilità di creare dell’ulteriore pensiero. Questo è ciò che sfugge ai pessimismi e alle strettezze economiche o di spazio nel mercato. Molta gente la musica la subisce come sottofondo, come si subisce il telegiornale. Io non riesco ad avere la musica in sottofondo: la devo ascoltare. Sapere che ci possono essere altre persone come me mi stimola. La gente ha bisogno di andare oltre lo stato delle cose, di cercare altro.

Parliamo di cambiamenti. Nel post di presentazione di “Entra pure” scrivevi che è il singolo in cui “hai ucciso il cantautore”, nel senso di cambio di linguaggio e avvio di una nuova fase. Come stai vivendo questo cambiamento? Ti ci stai tuffando o sei ancora indeciso? In che direzione ti muovi?
Il cantautore non riesco ad “ammazzarlo”, non ci sono riuscito neanche questa volta. Quella frase era un po’ eccessiva, ma era il principio da cui è partito l’album: uscire da certi schemi che mi hanno formato, per quanto importanti. Avere cantautori come maestri per me è stato come leggere migliaia di libri da adolescente: mi ha formato tantissimo. Però sentivo l’esigenza di uscire da alcuni automatismi di scrittura. Raramente ho scritto musica e testo nello stesso momento, ma stavolta me lo sono imposto, utilizzando un linguaggio più sintetico e scarno, ma anche più allegorico, lasciando più spazio all’ascoltatore. Mi diverto molto quando, dal vivo, qualcuno mi racconta cosa significa per lui o lei una mia canzone: spesso il significato che le persone le attribuiscono è diverso dal mio, a volte addirittura più profondo. Stavolta cercavo quindi un linguaggio meno definito a livello di senso, ma molto definito a livello di sonorità.

Poi, non sono mai riuscito a pensare alle mie canzoni slegandole dall’album, ogni volta che scrivo un disco nasce da un’intuizione che diventa quasi ossessione finché non la porto a termine. È sempre stato così, ogni disco ha una sua caratteristica: il primo disco dei La Sintesi è esistenzialista, parla di me in rapporto alla mia vita; il secondo è più legato al rapporto con gli altri; “Le ombre” (mio primo solista) è una sorta di ricerca filosofica su ciò che sveliamo senza volerlo, sulle intuizioni non ancora chiare; il penultimo è, per me, un quadro di Escher: tutto iperbolico sul tempo e sul senso delle convinzioni, sul tempo che torna su sé stesso; questo nuovo disco lavora invece sugli inganni del linguaggio e sulla nevrosi. Dopo anni di analisi psicologica e psicoanalitica, ho capito che il mio linguaggio (che credevo proiezione della mia interiorità) mi inganna, facendomi credere di esprimere ciò che sento, mentre in realtà condiziona il modo in cui sento. Anche il titolo gioca sull’inganno linguistico (il vecchio gioco “Ice cream / I scream”, citato in un caso psicoanalitico richiamato da Freud). Il punto è che il linguaggio crea realtà, perché se dico “il bicchiere è mezzo pieno”, non descrivo il bicchiere: determino come lo vedrò. Il bicchiere è a metà, ma è il linguaggio a portarmi verso un certo pensiero.

Questo si lega alla desensibilizzazione di cui siamo testimoni oggi, mettendo la parola “guerra” nella stessa frase con “gas”, “condizionatore”, “religione”, “soldi”… È un tranello in cui siamo caduti, derivante da un linguaggio malato. Non è così automatico citare in un discorso di guerra e morti cose frivole al confronto, eppure è diventata la normalità, pace e guerra usate sono intercambiabili. Il senso si ribalta e si anestetizza, è un terribile tilt del linguaggio. Mi viene in mente Hannah Arendt, “La banalità del male”: sentirsi insieme vittime e carnefici. La deresponsabilizzazione sistemica, la logica dell’“ho solo obbedito agli ordini”. Questa cosa che il male non ci appartiene da una parte ci salva, dall’altra ci desensibilizza perché neanche ci rendiamo conto di fare del male. E anche se lo facessi, è il sistema che mi porta a farlo. 

Quale canzone del disco diresti che rappresenta meglio il cuore del tuo lavoro? Io, per esempio, in “Tanto è solo oggi” ritrovo la corsa al domani (“credo che starò meglio domani / vorrei già svegliarmi che è domani…”) ma anche l’idea di non restare nel passato. In “Splendidi perdenti” invece: “idealmente noi siamo potenti / gettati nella quotidianità”. E anche qui, questa quotidianità per te è noia o conforto?
In “Splendidi perdenti” la quotidianità è entrambe le cose: conforto e limite. È ciò che ci rende “perdenti” perché, comunque, tutto finisce, anche le relazioni. Quel rapporto in potenza è infinito, ma poi in realtà deve essere gettato nel tempo in cui si trova. Il tempo che scorre, poi, è una mia ossessione: passato, futuro, presente che sfugge. Ho compiuto cinquant’anni e mi sento come se non volessi più occuparmi del tempo, è come salire su una scala e poi buttarla via: non voglio più scendere a riguardare il passato, ma nemmeno procrastinare al domani (che è sempre stato un ideale). Mi sono stancato di questa visione così ossessionata del tempo. “Tanto è solo oggi” poteva stare anche nel disco precedente, che aveva come tema centrale il tempo; lì, a volte, giocavo con iperboli (“un anno è un secondo”), mi divertivo a ribaltare i piani. Di recente ho scoperto un filone che vorrei approfondire: con la relatività di Einstein e i lavori di Gödel sul tempo circolare; forse, in un numero inimmaginabile di miliardi di anni, torneremo al punto zero. Questa idea mi ha spiazzato: mostra quanto sia limitata la nostra visione. Noi ci rapportiamo al tempo, ma non sappiamo cos’è il tempo, proprio come per la canzone: so cosa non è, ma definirla è più difficile.

“Frammenti” è ispirata a Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes. Perché proprio quel saggio? Cosa ti ha colpito?
In quel periodo del Novecento sono successe rivoluzioni enormi tra filosofia, psicanalisi e musica. Ho un’ammirazione grande per opere, forme d’arte e pensieri di quegli anni: sembrava fossimo arrivati a una vetta, e invece abbiamo messo tutto in discussione. È partito tutto dalla mia fascinazione per quelli che hanno studiato il linguaggio a partire dalla psicanalisi, che ritrovo anche in Barthes; quando in una canzone parlo di innamorato come un “bambino eccitato”, non lo è solo dal gioco, ma anche sessualmente: l’innamorato, come fosse un bambino, diventa privo di difese, privo di sovrastrutture, entusiasmo puro; associato all’eccitazione sessuale, poi, è un’immagine ben precisa. E poi l’idea della verifica: se togli la risposta a un “io ti amo”, diventa una tragedia: la frase cade nel vuoto e svuota chi la pronuncia, perché manca una verifica importante. Non è la prima volta che parto da saggi per scrivere: anche la canzone con cui sono andato a Sanremo nasceva da un saggio sul cannibalismo che ribaltava tutto. Avevo letto un saggio in cui si diceva che in certe tribù del Sudamerica, il cannibalismo fosse una forma estrema di rispetto. Si pensava che nel corpo risiedesse l’anima, quindi mangiando il corpo ne assumevi l’anima, le capacità belliche, la mente dell’avversario. Il punto non era la carne, ma lo spirito. Questa visione paradossale mi affascina, del cannibalismo come forma di rispetto.

Ho notato un parallelismo tra “Il grido”, dove dici “Se grido a tempo il mio grido è un canto” e un’altra canzone (“Le occasioni che perdono”) in cui invece parli di “un grido soffocato che hai dentro”. Con questo disco senti di aver tirato fuori questo “grido soffocato”?
Ho capito che il “grido soffocato” è un pianto soffocato, che ha cambiato forma. Il pianto è la nostra prima forma di comunicazione: è una parte debole, ma perderne il contatto è pericolosissimo, genera violenza, fisica e ideologica. Negli anni Sessanta-Settanta si parlava di primal scream, grido primordiale come salvifico. Il pianto è catartico, il grido è una forma di violenza, mentre il pianto è tornare a casa, trasformare quella violenza in catarsi. C’è un brano di Dalla con Pasquale Panella, Fatti un “pianto”, che trovo pazzesco: il pianto come “reset” dei nervi. Lo diamo per scontato o lo esorcizziamo, ma è necessario. La mia inquietudine è che, trasformando sempre il pianto in altre emozioni ugualmente ingestibili, perdiamo la capacità di piangere: e lì nascono molte forme di violenza.