Associare la parola “flop” a Bruce Springsteen è evento assai raro se non esclusivo, ma nel momento in cui redigo le mie impressioni sul biopic in oggetto, pare che i risultati al botteghino, se pur parziali, siano tutt’altro che incoraggianti.

Sicuramente , è bene dirlo, esordire ed esaurire tutto il discorso ad un riferimento meramente commerciale non si addice proprio alla natura del film e alle tematiche che affronta, dato che vengono scandagliati proprio i tempi e gli aspetti meno trionfali di Bruce. Uno Springsteen tutt’altro che “Boss”, piuttosto il fantasma di sé stesso, in una prospettiva forse inedita per chi non conosce la natura più intimista e bipolare del personaggio.

I punti di forza della pellicola sono l’essere un’opera che può essere visionata ed apprezzata da chiunque, anche da chi conosce in minima parte l’opera ed il vissuto di Springsteen; una storia affascinante (che avrebbe voluto anche essere profonda), ben calibrata tra esigenze narrative e slanci emotivi, che avrebbe sicuramente meritato un’accoglienza maggiore, se pur con tutte le riserve che nutro sull’esito finale.

E’ pur vero che proprio la scelta di discostarsi dai classici “biopic” odierni, non accogliendo la classica narrazione eroica e omnicomprensiva (o presunta tale) dell’artista di turno ma piuttosto soffermandosi su un periodo sia ristretto che oscuro, non ha giovato nel creare empatia e curiosità presso il grande pubblico, nonostante il soggetto abbia una potenziale cassa di risonanza “enorme” (e sia tutt’ora baciato da un successo travolgente, considerato dai più come uno tra i vecchi rocker che sta invecchiando nel modo migliore).

Scarsa anche la presenza prettamente musicale, per un film che bada maggiormente ai dialoghi, alle interrelazioni tra i vari personaggi, alle atmosfere rarefatte e spettrali che vogliono (vorrebbero) richiamare le sonorità proprie del disco “Nebraska“. Una scelta coraggiosa e sorprendente quella di scegliere tale spettro temporale e tematico per realizzare il film, tanto quanto fece lo stesso Springsteen dopo il successo di “The River”, scelta che avrebbe potuto frenarne irrimediabilmente l’ascesa.

Giova però ricordare e sottolineare quale sia la fonte di questo biopic, che valga anche come invito a procurarsene una copia, ovvero il libro di Warren Zaves dello stesso titolo (per i più attenti già lodevole solo per essere stato leader del gruppo dei Del Fuegos).

Un libro che magistralmente fotografa il particolare momento artistico ed umano di Bruce e che colloca il capolavoro (di coraggio, intensità ed arte) “Nebraska” non più e solo all’interno di una spietata e disarmante fotografia degli Stati Uniti reganiani ma ancor più come ritratto dei fantasmi presenti e passati dell’uomo Springsteen, non solo e non più il (più) grande perfomer rock.

Ed è proprio in questo frangente, nonostante il punto di partenza “coraggioso”, che il film fallisce e tradisce la sua natura di moderno biopic, accasciandosi in una mancanza di profondità ed in una eccessiva povertà storica e tematica.

Un film che, se pur sembra in contraddizione con quanto espresso poc’anzi, mi ha emozionato, ma forse grazie ai ganci emotivi di cui tutto il film è ricco, tra amori nati e subito soffocati, amari ricordi d’infanzia, depressione non più solo latente, tenacia e voglia di redenzione e diamo il giusto merito anche a Jeremy Allen White.

Di per sé, quindi, un “buon film” ma che pecca di diffusa semplificazione.

Forse più di così non era possibile fare?