Sostanzialmente l’album che ci si aspettava, “Deadbeat” certifica lo spostamento di Kevin Parker dentro territori dance sempre più evidenti, la sua marcata deriva psichedelica non più rivolta verso il mondo del rock analogico seventies ma più verso le moderne forme di aggregazione, dove comunque ritrovare quell’antico spirito di alterazione derivato dall’ascolto della musica.

Credit: Julian Klincewicz

Certo, da uno abituato a lavorare da solo e perfezionista, non ci si possono attendere nè pretendere delle sfaccettature, con questi soggetti talentuosi, di cui, nel suo caso, almeno 2/3 album hanno rappresentato una positiva virata del panorama rock, ogni cosa nuova arriva confezionata senza repliche, in quanto parte dal processo individuale di una mente abituata a inseguire le proprie riflessioni senza bisogno di troppi spazi di confronto con l’esterno; ecco, in “Deadbeat” oltre all’ispirazione, Parker si fa chiaramente guidare dallo stato d’animo, dalla spinta evidente di un felice momento della sua vita, illuminata dalla presenza dei figli, baciata da un’eta’ invidiabile in cui la maturazione stenta ancora a diventare realtà e quindi ancora tutto appare possibile, una fase musicale corporale dove evidentemente il movimento, lo spazio attorno al corpo diventa fondamentale, un’euforia che vuole abbracciare il prossimo e quale migliore spazio per perseguire questo intento se non il dancefloor?

Ne esce un album in cui ci sono scie di quello che i Tame Impala furono, specie da “Currents” in poi, con i ritmi funky disco (“Loser”, la migliore) , e la voce in alternato falsetto , sempre piacevoli ed immediate, passando a veri e propri brani house techo, cassa dritta e pochi fronzoli, delle vere tempeste per i primi fan ma, tutto sommato, forse la parte più coerente con il nuovo universo di Parker. In canzoni come “Ethereal Connection” o la finale “End of Summer” si sente proprio l’urgenza della condivisione dell’esperienza rave, della massa felice e spensierata, un pò come l’ultimo Floating Point, e paradossalmente è la parte migliore dell’album.

Altrove ci sono brani piacioni, come se appunto l’autore australiano non volesse abbandonare del tutto il suo vecchio pubblico, tipo l’iniziale “My old ways” o “Afterthought”, dove l’edonismo sfacciato del momento manipola la struttura delle canzoni, riempendole inutilmente di ritmi dance, il che, considerate all’interno dell’album, fanno perdere loro una certa consistenza; altrove ci sono proprio canzoni troppo leggere come “Piece of heaven” con quelle suggestioni alla Enya, che non si possono proprio sentire.

Insomma, siamo di fronte ad un grosso punto di domanda , ad un album che pone diversi interrogativi sul futuro ma anche sul passato dei Tame Impala; alla fine, “Deadbeat” ci porta non tanto a considerare un “ritmo morto”, ma un ritmo cangiante, che chissà dove porterà, forse è il primo assaggio di una nuova dimensione, forse un episodio isolato in attesa che la malinconia, le riflessioni amare (“Loser”), riprendano il sopravvento, portino di nuovo il nostro Kevin ad imbracciare una chitarra lisergica, scatenando un riff indimenticabile, forse invece saremo costretti a vederlo solo dietro una consolle in un party sterminato; ma quello non sarà il nostro posto.