Praticamente la colonizzazione degli Stati Uniti è stata fondamentalmente come un grandissimo incasinatissimo primo giorno di scuola. Vabbè un po’ più cruento considerato che al primo anno delle medie non dovevi (necessariamente) sterminare gli alunni dell’anno precedente, ma insomma sorvolando su queste piccolezze vedrete che il parallelismo funziona: ai primi banchi, sulla costa est, si sedevano i secchioni, quelli che avevano paura a priori di quelli che invece si sarebbero seduti ai banchi in fondo, o semplicemente gli ingenui a cui sfuggivano queste fondamentali regole della Vita, l’Universo e Tutto Quanto. Quelli dei banchi in fondo invece iniziarono ben repsto a puntare sempre più a ovest, fino ad arrivare al mare praticamente. Ok, erano epoche in cui nelle maledette feste delle medie i maschi stavano da un lato a sincerarsi a assicurare la rigidità  strutturale delle pareti mentree con disinvoltura si infilavano ancora le dita nel naso, le ragazze dalla parte opposta a lisciarsi le gonne facendo sorrisetti. Certo sospetto che la gioventù bruciata degli anni 2000, bruciata nel senso che a 13 anni si fanno già  le paranoie di un 35enne, rivedrebbero la disposizione del primo giorno di scuola in base al posizionamento delle compagne di classe di sesso opposto anzichè seguendo le regole esposte inizialmente. Con conseguente sfacelo culturale degli anni a venire, niente scherzi queste faccende si sa sono pietre angolari: non le fila nessuno queste strutture portanti ma provate a metterne malamente una e il vostro bel palazzo andrà  a puttane prima del tempo.

Quindi insomma sulla costa ovest degli Stati Uniti nel corso degli anni sono finiti tutti quelli del banco in fondo, per poco infatti qualche anno fà  non ci finivo pure io, ed ecco così che è venuta fuori quella culla delle controculture con la C maiuscola: dalla Summer Of Love del ’68 alle rivoluzione digitale, Silicon Valley, Cupertino e Steve Jobs in testa, salendo verso Seattle e l’epico rock di (ri)getto degli anni 90 catalogato come grunge, fino al bistrattato movimento No Global. Se sul vecchio continente il futuro è a nord, in quello nuovo sicuramente è a nord-ovest. E così da San Francisco con la prospettiva vincente del banco in fondo, roba che quelli della prima fila nel migliore dei casi se ce l’avevano era solo voltandosi indietro, Ezra Feinberg (Piano Magic, space-rock di prima qualità  per chi ha avuto il piacere) e Tim Green (The Fucking Champs, Nation of Ulysses) muniti dell’armamentario d.o.c. dell’artista lo-fi ovvero computer e software multitraccia in testa, più una buona manciata di strumenti prelevati direttamente dai seventies, davano vita a questo succoso progetto dal nome Citay.

Slurp. Luminosamente psichedelici come gli indimenticabili Led Zeppelin acustici, sognante come il migliore Psych-Folk dell’era hippy, morbido e caldo come il sole di quelle latitudini questo omonimo “Citay” riesce in più punti a compiere il miracolone di rendere plausibile quell’invisibile filo conduttore che unisce il rock psichedelico con il metal/hard-rock degli 80. “Vinter” avrebbe benissimo potuto avere alla chitarra un Dimebag Darrell in forma melodica. Melodie sospese e fluttuanti, suoni valvolari e piacevolmente saturi uniti alle grandi idee negli arrangiamenti elevano questo esordio dei Citay da quella che avrebbe potuto essere una semplice rivisitazione di certi luoghi storici del rock, ad una originale reinterpretazione attuale di un passato musicalmente indispensabile. Se uno volesse dargli per forza un etichetta probabilmente questo sarebbe il Post-Rock degli anni 70. Per chi in quei banchi in fondo non c’era, per chi avrebbe voluto esserci, per chi erroneamente crede che certe cose siano iniziate e finite nel passato.
Grossomodo traducendo l’ultima traccia Quello che è stato e quello che avrebbe dovuto essere.