I Cold War Kids nascono nel 2004, in un periodo in cui Myspace è il metro di paragone della coolness generale, You Tube mostra pure l’interno del buco del culo del vostro vicino di casa (“Siamo in Europa, cazzo!” come direbbe qualcuno) e Michael Jackson è convinto che in Qatar non sappiano cosa vuol dire “pezzo-di-merda”. Si sussurra pure che, in un vecchio locale di periferia – dove gli occhi della gente sono fissi sul culo e sulle tette della cameriera – qualcuno abbia tirato le cuoia soltanto per aver sussurato “Non mi piacciono i Cold War Kids“, subito dopo l’esibizione del gruppo di Fullerton. Potenza inesorabile del fato o vendetta divina per il fatto che tre dei quattro californiani frequentassero il Bible Institute di Los Angeles; o più verosimilmente merda metropolitana che si è auto-generata come al solito dal nulla (o dalla mente allucinata di qualche navigatore solitario della rete). Fatto sta che il quartetto, nel giro di un paio d’anni, fa mangiare la polvere a tanti, abbandona l’etichetta di “Christian Band” che qualcuno gli aveva appiccicato di nascosto – proprio come si faceva con i cartelli dietro la schiena ai tempi delle elementari – e si invola verso la gloria con tre EP consecutivi firmati Monarchy Music – che vanno presto esauriti – e guadagnano alla band l’immancabile copertina del NME (ma pure quella del Los Angeles Times e di tanti altri…non ultimo il nostro “Il Manifesto”), l’esibizione ai festival di Bonnaroo e Lollapalooza, il passaggio su MTV grazie all’ipnotica ed ossessiva “Hang Me Up To Drive” ed il loro primo album, accompagnato dal passaggio alla Downtown Records (in Italia escono con V2).

Mettiamo subito in chiaro le cose, prima che qualcuno se ne venga fuori con qualche commento decongestionante: i Wilco non se ne sono venuti fuori con “Yankee Hotel Foxtrot” alla prima botta; e nemmeno i Wolf Parade con “Apologies” (vabbè, gli Arcade Fire hanno fatto Funeral, però facciamo finta che non ce ne freghi un cazzo!). Inevitabile dunque, per una band “giovane, carina e disoccupata” (passatemi la merdosa citazione) fare un primo disco che contenga momenti di brillantezza e genialità  e cali di ritmo e di tensione. L’impressione generale è che anzichè la (stupenda e potente) voce di Nathan Willet – con i suoi inserti di piano che si sovrappongono alla perfezione sui sapienti riff di chitarra e sul coinvolgente basso di Jonnie Russel e Matt Maust (cazzo: ditemi voi se questi non sono nomi rock! mica si chiamano “PASQUALE!” – il vero asse portante della band californiana sia la batteria di Matt Aviero, che dunque fa il buono ed il cattivo tempo: ne risulta – appunto – un ottimo rock’n’roll con venature blues dove i ritmi sono tesi e serrati (tra gli altri, “We Used To Vacation” ed il già  citato singolo) e de discreti rimandi soul quando l’atmosfera si fa più tranquilla (sentite però “Robbers” e “Hospital Beds” e ditemi se si tratta di pezzi “deboli”…). La voce di Willet è però quella di cui – nel complesso – si è parlato di più, vuoi perchè “cazzo! se non si parla della voce del cantante di che stiamo a discutere, allora!? e vuoi per gli accostamenti illustri che sono stati fatti – Jeff Buckley e Jack White, tra gli altri. Lui non fa mistero di questo su talento vocale; ma non lo vende così, per due soldi; lo tiene invece al caldo, come un tesoro prezioso da mostrare soltanto nelle migliori occasioni: il risultato è – a mio parere – il pezzo migliore dell’album, “Passing The Hat”, dove Willet ci dimostra di cosa è capace, seppure cantando frasi senza senso (Sweet sweet sigh of relief/Sweet sweet O Baltic Sea).

In conclusione – per non farvela tanto lunga – a me più che i già  citati artisti questo disco suona molto The Morning After Girls, ma soprattutto Rolling Stones vecchia maniera. Certo, i quattro californiani non hanno il carisma di Jagger e soci; e sono ancora troppo pochi gli elementi per poter predire una carriera musicale tanto lunga. E’sempre possibile che qualche loro canzone vada a finire nella pubblicità  di qualche telefonino; o che Willet si sposi con qualche attrice, faccia due figli e tiri fuori il suo “X&Y”. Per il momento però, è giusto tributare a questi ragazzi la dovuta attenzione. Ah, dimenticavo: se avete comprato (ma tanto l’avete scaricato!) il disco dei Guillemots pensando che fossero cool, buttateli nel cesso ed ascoltatevi questi.