Al ventesimo del secondo tempo, l’esterno destro dello United si invola sulla fascia, facendo secchi i due vecchi difensori avversari. Con un doppio passo veloce come chi ha sangue caldo e voglia di scappare da un piccolo paese affogato nel nulla nebbioso, il laterale ““ “‘l’ala’ l’avrebbero chiamato i vecchi che da quelle parti di calcio ne avevano visto passare tanto – disegna una parabola tesa e precisa al centro dell’area. Come un falco il centravanti segue la traiettoria, si sgancia da tutte le marcature ed impatta al volo. Ma qualcosa va storto: il mondo deve aver singhiozzato in quell’istante infinitesimale, perchè il pallone viene clamorosamente svirgolato, terminando la sua corsa sbilenca tra le braccia stupite di un giovane raccattapalle sul fallo laterale opposto.

Per un tifoso la cosa peggiore è un urlo strozzato in gola. Credetemi, non c’è nulla di più frustrante. Allo stesso modo, quel grido che stava per esplodere all’arrivo del terzo disco dei Frightened Rabbit, è evaporato in una sontuosa bestemmia. E sì, cari lettori, stavolta i conigli impauriti ciccano clamorosamente la prova del nove, scivolano sul più bello, lasciandoci con un amaro in bocca che più amaro non si può.

Abbandonato quel fragile (e meraviglioso) equilibrio che mescolava ruvidezze folk a miasmi elettrici, la band scozzese pare indecisa su che via intraprendere. Ascoltando “The Winter Of Mixed Drinks” sembra d’essere ingabbiati in un unico interminabile stacchetto musicale che farcisce i momenti clou dei più recenti telefilm americani di ambientazione ospedaliera. Quello che era un punto di forza, la trascinante e sbilenca voce di Scott Hutchison, ora diventa un pesante orpello votato al nulla, completamente disfunzionale agli intenti emozionali del band di Selkirk. Più il disco gira nello stereo, più si fa ferma la consapevolezza che la capacità  di scrittura dei precedenti lavori sia affogata in un pantano di asfittico indie-rock modaiolo senz’anima. Le canzoni (se di canzoni vogliamo parlare, poi) mancano di circolarità , iniziano ma sembrano non arrivare mai al dunque, sono shoegaze nell’impostazione, ma non nella sostanza, vorrebbero, ma non possono.

Insomma siamo anni luce lontani da “The Midnight Organ Fight”, da quello scrigno ricolmo di melodie e pathos che splendette tra le grigie nubi di qualche inverno fa. Non c’è traccia, se non a tratti, di quelle atmosfere brucianti di vita e malinconia, di quell’urgenza e voglia di esplodere fragorosamente brulicante nei due dischi precedenti.
A questo giro la delusione è forte, ma un tifoso, un vero tifoso s’intenda, sa anche che la prossima partita sarà  quella del riscatto. Noi, allora, attendiamo fiduciosi.