Lo avevamo lasciato quattro anni fa, al tempo di “Familial”, un esordio che già  metteva in luce un talento abbastanza cristallino, a lungo tenuto nascosto dietro a doti ritmiche di tutto rispetto. Ecco: immaginatevi un disco come “In Rainbows” senza il suo contributo e poi torniamo a parlarne davanti a una birra; anzi, davanti ad una tazza di tè. Forse Philip Selway preferirebbe così, poichè l’uomo che da sempre siede dietro la batteria dei Radiohead, benchè assai talentuoso, non è mai stato uno troppo appariscente o troppo maledetto. è uno di quelli a cui riesce molto meglio essere una persona piuttosto che un personaggio, che predilige, per dirla con banalità , la sostanza a discapito della forma; e tenendo conto che di quest’ultima ne ho francamente le palle piene, quando mi ritrovo davanti a un disco che mette in fila una decina di ottime canzoni, senza troppi fronzoli di sorta, scevro dal solito marketing che fa da contraltare a certe uscite musicali, non posso che ritenermi quanto meno contento.

Allora, lo dico subito, così mi tolgo il dente: “Weatherhouse” è il disco solista che Thom Yorke avrebbe voluto fare. Ebbene sì: a questo giro la crapa pelata batte l’occhiolino pio di diversi punti: a livello di scrittura siamo davvero su ben altri livelli, e inoltre il secondo album solista di Selway rappresenta un netto passo in avanti rispetto alle già  apprezzabilissime reminiscenze folk – pop e drakeiane del suo lavoro precedente. Qui, troviamo un musicista più consapevole dei propri mezzi e del proprio talento: migliorato nella modulazione della voce, probabile punto debole di “Familial”, cresciuto nelle ambizioni e nelle intuizioni in sede di arrangiamento.

“Coming Up From Air”, brano d’apertura, può sintetizzare al meglio quanto detto poco sopra: linea melodica eccellente, armonie che uniscono effetti elettronici a contrappunti analogici; un’atmosfera non troppo distante dai fasti di “Ok Computer”. Discorso valido anche per la successiva coppia di brani, “Around Again” e “Let It Go”: della prima spiccano le ritmiche elaborate, mentre della seconda l’intenso crescendo finale, votato all’orecchiabilità . Un po’ come avviene in “It Will End In Tears”, forse il brano migliore del lotto, splendido nell’unire le sonorità  del Fender Rhodes e il dolce-amaro quartetto d’archi a un sopraffino gusto pop.
Incontriamo poi timbriche acustiche nella più notturne “Ghosts” e nei morbidi arpeggi di “Don’t Go Now”. “Drawn To The Night” è invece una delle molteplici strizzate d’occhio al cantato di Yorke, e il sound di “Waiting For A Sign”, retto da una insistente drum-machine, è la canzone che più sembra omaggiare Jonny Greenwood e tutti quei suoni sui quali i Radiohead si sono buttati a capofitto. Conclude il tutto la rassicurante “Turning It Inside Out”: una cullante catarsi armonica di archi e pennellate elettroacustiche venate di elettronica.

Un disco solido e compiuto, dunque promosso a pieni voti; niente di nuovo o di epocale, ma d’altro canto le rivoluzioni non si chiedono più a nessuno.
Il consiglio, specie in queste giornate tardo-autunnali alle quali ben si confà , è quello di concedergli più di una possibilità , diffidando di chi scrive e incide i dischi in dieci giorni e poi li mette su torrent.
Thom… si scherza, eh.

Credit: Phil Sharp