Il principio di realtà  ““ mi spiegava una volta un mio professore ““ è stato inventato per proteggerci dall’angoscia, dagli incubi. Questo tavolo esiste, continuava, quell’albero esiste e quello di prima era solo un sogno, una fantasia: scuoti la testa e finchè puoi distinguere le due cose, sei al sicuro. Nella title track del nuovo album, Phil Elverum canta “I don’t think the world still exists, only this room in the snow, and the light from the coals”: quando il mondo là  fuori non è più una certezza, cosa resta?Le stesse cose, ma con una tonalità  di inquietudine in più: tecnicamente, si potrebbe chiamare eery la sensazione di paura e straniamento senza motivo apparente, quella che potreste sentire nelle tracce di “Sauna”. Con “Clear Moon”, il bellissimo album del 2012 (forse la migliore cosa che questo musicista abbia mai registrato), Elverum era tornato ad Anacortes, Washington, la sua città  natale: ci deve essere qualcosa nei luoghi a cui appartieni che riesce a parlarti, a parlare di te. Sotto lo sguardo di quel monte, da nome tanto evocativo “Erie”, Phil Elverum ha composto e registrato le dodici tracce del suo nuovo lavoro. E adesso l’universo che si apre dal giardino sul retro (questa la definizione che preferisco per parlare della musica) finisce per diventare un ricordo lontano: in “Sauna” Elverum racconta storie, ma non vediamo nè le foreste nè le cime degli alberi che spuntano dagli abissi ““ la nebbia fitta fino a diventare acqua ha inghiottito tutto, tranne la musica.

In queste giornate in cui il bel tempo sembra sempre minacciato dalle nubi che arrivano da nord, in queste giornate in cui esco di casa e le piazze sono sommerse dall’aria spessa che attenua i contorni e confonde i calendari, questo disco si rivela particolarmente adatto, con tutti i suoi difetti e le sue dissonanze: ci sono voci che arrivano da lontano in pezzi come “Dragon”, che assomigliano alla recita di una leggenda con gli eroi e i santi e le divinità  di un Nord che non conosce le religioni educate dal tempo e dalla paura, ci sono pezzi come “(Something)” che non assomigliano a niente, se non a qualcosa che abbiamo sentito anni fa, le colonne sonore di una scena qualunque di Twin Peaks, con una simbologia incomprensibile che prevede una “Pumpkin” abbandonata sulla baia, o barche (“Boat”) alla deriva. Tra tracce di due minuti e lunghi pezzi some “Spring” o la title track di dieci, questo disco assomiglia a un sonno pieno di immagini, c’è qualcosa di concitato eppure incorporeo che viene a disturbarci, che scorre sottopelle ai pezzi drone, frammenti di immagini che pure non arrivano a senso, neanche messe insieme.

Un gradito ritorno alla musica, epico eppure minuto, pieno dell’understatement tipico di questo musicista.