Mai giudicare un libro dalla copertina.
Questo proverbio, se applicato, nello specifico, a “The Lobster” (fresco vincitore del premio della giuria di Cannes), mette in discussione il principio di cui si fa portatore.

Cominciamo dalla storia, e dal suo contenuto (il “libro”): nella società  immaginata dal regista greco Lanthimos, lo status di single non è contemplato e l’esistenza sociale è ammessa soltanto se vissuta in coppia.
Qui troviamo David (un Colin Farrell inespressivo che, visto il personaggio interpretato, si rimane nel dubbio se possa essere un pregio o un difetto), separatosi dalla moglie, che si trova ad affrontare il destino di tutti coloro che si trovano nella medesima condizione di individuo singolo, ossia trascorrere 45 giorni in un hotel, dove, attraverso degli improbabili test somministrati dagli inflessibili governanti dello stesso, conoscerà  alla fine la sua sorte: trovare una compagna ritenuta “compatibile” o essere trasformato in un animale di suo gradimento.

In questa nuova realtà  dai contorni fiabeschi nel senso più cupo del termine, David si muove con iniziale flemma agnostica accompagnato dal fratello (il cane al guinzaglio) fra regole senza “mezze misure”, crudeli sia per chi le disattende ma anche per chi le rispetta, il cui scopo è innanzitutto far capire agli ospiti quanto la vita individuale sia impossibile, imbattendosi in personaggi (John C. Reilly, Ben Whishaw, dalla prova innocua) tratteggiati soltanto nelle loro bassezze, di sapore quasi pirandelliano.
Provando ad ingannare il sistema, il protagonista tenta l’accoppiamento con una donna “senza cuore”, algida.
Resosi conto della sua spietatezza David riesce a fuggire nei boschi imbattendosi in una banda di ribelli, capeggiati da un’antipatica Lèa Seydoux, il cui estremismo sta all’opposto di quello imposto dal “sistema”: il concepire la vita sociale solo ed esclusivamente nell’individualità  essendo proibito, pena la morte, ogni rapporto di coppia.

Qui troverà  – forse ? – in una donna (Rachel Weisz) quello che in entrambi i contesti, l’hotel e il bosco, è un sentimento ripudiato e rinnegato: l’amore, che li condurrà  a scappare anche dal bosco, fuori dagli “schemi”, verso un futuro incerto anche nelle intenzioni degli individui che compongono la “nuova” coppia.
Ma non è l’amore il vero tema del film, che viene messo da parte in nome di spunti diversi e molto interessanti: l’annichilimento dell’individuo visto con le lenti della rigidità  dei meccanismi e delle regole di una struttura sociale chiusa, che nella sua calcolata freddezza applica con rigore la sua intolleranza verso ciò che è considerato “diverso”, fondandosi, nella sua ottusità , sul presupposto che quest’ultimo non debba nemmeno esistere o, quantomeno, vada “curato”.

E qui si arriva alla forma (alla “copertina”): il cinema è per antonomasia rappresentazione e il problema principale del film risiede nel taglio scelto dal regista greco per trasmettere allo spettatore il suo messaggio, la sua metafora. Il grottesco poteva essere una buona soluzione, ma se portato alle estreme conseguenze porta unicamente il regista a specchiarsi in se stesso senza riuscire nè a far ridere – raramente riesce, al massimo, a far sorridere – nè a far disgustare per lo squallore rappresentato, nè a inorridire nelle scene di violenza che, apparendo gratuita, lascia indifferenti, prima, e annoia poi.
Purtroppo siamo al cospetto di una forma che nel suo essere volutamente asettica, si arrocca in un intellettualismo autoriale che si pretende inaccessibile e che inficia sul contenuto (“libro”), emarginandolo in quel che vuole essere una sorta di personale manifesto sociale del regista.

Il cinema è derivativo ma qui i riferimenti a Kubrick (le lezioni dimostrative nell’hotel e il trattamento riservato agli ospiti richiamano” Arancia Meccanica”, le riprese dei corridoi dell’albergo invece “Shining”, la musica di provenienza classica, abusata, che accompagna in modo ossessivo il cambio delle scene alla “Barry Lyndon”) non fanno che aggravare l’impressione che si ha del film, per le ragioni sopra esposte. Infine, gli inserti ralenty risultano manieristici.
Parlando ancora di “compatibilità “, come per i personaggi, questo film lo accoppierei con certi scivoloni di Sorrentino (vedasi “La giovinezza”, “This must be the place”) dove uno spunto, buono, diventando pretenzioso e compiacendosi, si rivela carente nel reggere un’intera opera, che vorrebbe essere disturbante, ma che finisce per rendere lo spettatore sì disturbato, ma per l’occasione qui sprecata.