Per la serie “famolo strano” ecco che avanza il caos organizzato di A Hermitage, secondo disco dei Jambinai, trio corrazzato sud coreano che vive la sua arte sonora in un crossover di stili, stimoli, rumor e noise, strumenti della atavica tradizione orientale fusi con le ansie e la destrutturazione contemporanea, e tutto nella normalità  espressiva di chi improvvisa, gioca, fantastica con la tecnologia programmata.

Chitarra, basso e batteria a confronto con haegum, geomungo, piri, Oriente e Occidente orecchio a orecchio, una guerra alla pari che rende l’ascolto un crocevia di flash e deliri semantici, una esplosione di colori immaginari e bailamme post-rock, una tremenda rivoluzione sensoriale che nel giro di otto tracce riempie lo stomaco, bombarda la testa e dilata la conoscenza di una spiritualità  vista e sentita dalla parte dell’incubo amico.

La formazione di Seul, Lee Il-woo chitarra, piri, Kim Bomi haegum, voce e Shin Eunyong glockenspiel, geomungo,voce riescono nell’intento di “rivoluzionare” certi stereotipi consunti del noise, e questa ottima mistura di ieri/oggi potrebbe creare un eccezionale precedente, una nuova via verso lidi sperimentali di lusso, e allora brani come il marasma cosmique di “Echo of creation”, il mantra ipnotico e cadenzato “Abyss” o i ritmi frenetici sussultori di “Naburak” sono da prendere come anfitrioni di una nuova realtà  che “bussa forte” alle porte del Terzo Millennio. Si, dall’Oriente con furore come non mai!