I Lost Under Heaven non sono altro che quei LUH che hanno esordito nel 2016 con il sorprendente “Spiritual Songs for Lovers to Sing”, intenso amplesso sonoro generato dalla coppia composta da Ellery Roberts (ex-Wu Lyf) e dalla visual artist Ebony Hoorn, colleghi, sodali e amanti.

La copertina degna di un’uscita dei Nine Inch Nails fa presagire sinistri sentori, che in realtà  evaporano nel fumo denso di romanticismi obliqui e suadenti amarezze.
La musica dei Lost Under Heaven è difficilmente ascrivibile a una sola categoria: troviamo dolenti ballate post-industriali; tappeti distorti che avvolgono il lamento rauco di Roberts, che a sua volta sembra sempre fagocitare il canto imbronciato ma limpido della Hoorn; synth malinconico-epici che sottolineano il lato melodrammatico del duo anglo-olandese, il quale possiede l’invidiabile dote di sapersi fermare sempre a pochi centimetri da parossismi ed esagerazioni “sentimentali” quasi pop, nell’accezione melensa del termine. Ma è solo una vaga impressione, perchè prevale sempre un’anima disallineata, un fervore freak, “sbagliato” e post-apocalittico, che li aiuta sempre a ricollocarli tra i beniamini del rock indipendente più autentico. L’amore è sempre il selvaggio e implacabile motore delle composizioni della band (qui prodotta da John Congleton, che in parte asciuga le rotondità  epiche architettate nel primo album da Haxan Cloak), ma, lì dov’era salvazione e consolazione, ora questo sentimento appare come sinonimo di resistenza e riflessione.

L’entrata è poderosa, al passo del rock elettronico un po’ 90’s di “Come”, ma è una zampata che subito dopo si trasforma in una posa più enigmatica, dalla quale scaturisce una carrellata di pseudo-ballad rugginose, da “Bunny’s Blues “(in realtà , sotto mentite spoglie, discreto numero di distorto, sexy alt-rock mutante dalle liriche dannate), al duetto a lume di candela di “Love Hates What You Become”. La seconda parte della scaletta svela un lato più “materico”, con i blues androidi “Serenity Says” e “Savage Messiah” e quello che è praticamente un epilogo in due parti, costituito dalla spoglia “Post Millenial Tension” e dalla liberatoria “For The Wild”, brado inno alla vita informato però da una vena triste e rassegnata, fotografia di una realtà  ormai divisa in una semplice “scelta tra noia e odio”. La domanda è: lasciarsi andare alla corrente che tutto appiattisce e che porta alla negatività  o abbracciare le forze dionisiache del caos e dell’amore? La risposta in realtà  è chiara sin dalla prima nota di questo disco.