La band di Londra si fece conoscere nel 2014 con l’omonimo debut album. Non mancarono, e a ragione, accostamenti a quei mostri sacri che segnarono la storia di quella che venne chiamata New Wave: Cure, Smiths, Siouxsie and The Banshees solo per citarne alcuni. Anche il nome scelto è un riferimento ad un pezzo che i Cure registrarono per John Peel. Anche se in quella loro prima fatica non brillarono per inventiva e sperimentazione l’album fu bene accolto e le lodi si sprecarono per la talentuosa cantante Jo Bevan. Certo, le linee melodiche seguivano la scia di una stella di nome Morrissey ma la voce era davvero interessante ed i pezzi mostravano una propria ed invidiabile personalità .

Nel secondo album del 2017 “Grow Up” la band conferma tutto quello di buono che si era intuito nell’esordio. Mantenendo la stessa influenza stilistica la band trova un equilibrio tra la voce di Jo e la parte strumentale, impeccabile, con una eccellente capacità  del chitarrista Rob Hardy nel tessere abili fraseggi e riff che nulla hanno da invidiare ai più famosi colleghi Johnny Marr o Robert Smith.

C’era quindi grande attesa per questo terzo album, anche se l’EP “You Get Used To It” del 2018 aveva, per così dire, affievolito la sofferenza di una altrimenti lunga attesa. Il primo singolo “Cedars” esce a novembre. Il brano, molto semplice nella struttura, esalta l’interpretazione della Bevan, che sa esprimere l’ansia e l’inquietudine del testo. La solita chitarra rigogliosa di Hardy fa il resto impreziosendo il pezzo che, forse per il cantato alla Martin Rossiter, ci ricorda i Gene (bei ricordi comunque”…). “Satellite” è il secondo singolo. Uscito pochi giorni in anticipo sull’album è un pezzo molto brioso caratterizzato da un lungo solo di chitarra (quasi un minuto, ben speso a dire il vero) mentre Jo da potenza al brano con il suo “I’m always reaching for you“.

L’album mantiene alto il coinvolgimento e l’attenzione, “Jonatan” è forse il brano più attraente, quello che piace al primo ascolto, l’introduzione ricorda “She Sells Sanctuary” dei Cult ma prende indubbiamente tutta un’altra direzione. “International Waters” vero gioiello, è il pezzo stilisticamente migliore, quello che unisce tutte le qualità  dei singoli componenti della band. “Girl of the Houses” è forse il più debole tra i dieci brani con la Bevan un pò Dolores e Hardy che stavolta non va oltre la semplice e annoiata comparsata. “Black Net” e la opener “Murmutation” colpiscono per il ritmo più lento ma posseggono una forza che suggestiona e rapisce.

La delicatissima “Argonauts” è un viaggio nello spazio in assenza di gravità  mentre la conclusiva “To be Forgotten” si unisce a “Ocean Wave” a dare ritmo e perchè no, la voglia di buttarsi sotto il palco e muovere le membra durante una loro performance live. “Ocean Waves” era pure il nome della piccola imbrcazione usata dall’artista olandese Bas Jan Arder per il suo progetto artistico, attraversare l’Atlantico alla ricerca del “Sublime”. Purtroppo il suo viaggio è finito tragicamente al largo delle coste Irlandesi ed i già  citati brani “Argonauts” e “International Waters” sono dedicati all’artista, alla sua natura irrequieta, al suo cercare un successo o una gratificazione sfidando la natura, la sua e quella divina.

La Bevan ci conduce di brano in brano in questo viaggio dove le varie sfaccettature dell’amore e dell’accettazione di noi stessi e del prossimo vengono analizzate e sviscerate in profondità . E che dire del resto della band se non che ha ormai acquisito una grande padronanza nel gestire le dinamiche compositive.

“In Search of the Miraculous” è pure il titolo di quello che ritengo il libro più importante che abbia mai avuto fra le mani. Chi cerca risposte alle grandi domande della vita, in quelle pagine potrebbe trovarci le risposte. I Desperate Journalist non hanno nessuna pretesa, non vogliono insegnarci nulla. Ma la loro musica qualcosa di miracoloso ce l’ha e se crei emozioni sei un piccolo Dio. E loro si, in fondo lo sono, dei piccoli Dei.

Photo: Stefan Bollmann / Attribution