Boetti è un progetto che mi sta a cuore sin dagli esordi; un anno fa, ascoltai (e recensii, in qualche sperduto bollettino) il loro esordio “Psicomadre” e mi innamorai della scrittura caustica e disperata di Damiano, della pacca sonora di Meti e, in generale, della “fotta” sana che il brano seppe trasmettermi senza spegnermi il cervello – anzi, incendiandolo.

Poi, “Golden Boy”, in autunno: l’asticella si alzava ancora, mentre la voce di Boetti spostava il baricentro dall’interno verso l’esterno, lanciandosi in un’invettiva senza ritorno contro i raduni del sabato sera e gli annichilimenti cerebrali, vergando col sangue e il sudore il manifesto generazionale di un disagio nel quale sentirsi immersi è necessario per prenderne consapevolezza. Un “Urlo” 2.0, una riscossa “beat” che avrebbe raccolto il plauso di Ginsberg (oltre che quello di IFB). In un certo senso, “Loreto” completava il percorso, qualche mese dopo, riaprendo vecchie ferite mai sanate e traumi irrisolti attraverso l’arma dell’ironia e della risata anarchica. Quella, insomma, che sfodera i denti anneriti dalla rabbia per seppellire l’ignavia degli indifferenti.

Ecco perchè, all’uscita di “Blue” – il rabbiosissimo disco d’esordio di Boetti – mi sono promesso di parlarne (e a scatola chiusa): le premesse erano troppo ghiotte per non dare fiducia ad un album che, sin dal primo ascolto, ha saputo conquistarmi. Otto tracce al cherosene, micce esposte all’incendio dei sensi e all’esplosione dei sentimenti; un percorso catartico, pronto ad alleggerire le zavorre dell’anima prendendole a colpi di piccone, scavando in atavici strappi che rifiutano la coagulazione della rassegnazione: Boetti strappa le croste e fa scorrere il sangue vivo, urlando tutta la propria disperazione (che, come direbbe Tenco, non ha nulla di disperato ma che diventa un sublime “atto di protesta” contro l’immobilismo del proprio tempo) in un disco che non si limita a denunciare, spingendosi verso l’azione.

Sì, perchè “Blue” è una presa di posizione decisa e ferrea: come uno scoglio esposto alle correnti erosive della mediocrità  contemporanea, il duo pratese resiste all’usura del mainstream recidendo, nell’ascoltatore, ogni possibilità  di conforto; il disco d’esordio di Boetti sposta gli equilibri a colpi di lupara, fregiandosi di una sincerità  che si fa schiaffo. “Boetti Blue”, la title-track, vale più di tutto quello che negli ultimi mesi ho sentito, “6.5” ricorda alla scena come si fa rock’n’roll (e quanto possa essere politico, il rock’n’roll), “Agosto Blue” colora l’estate di un mood che è più simile a quello dei lividi (blu) che alle profondità  marine.

Boetti si fa bombarolo e martire, immolandosi sull’altare della genunità  senza, per una volta, pensare a cosa potrebbe o meno piacere ai grandi burattinai discografici; anzi, fa di più: taglia i fili delle marionette, restituendo dignità  a tutti i Pinocchio che alle bugie del proprio tempo hanno scelto di dire “Basta”.

Fatevi un piacere: regalatevi una mezz’ora di verità  non edulcorate, fatevi male. Magari, potreste scoprire che vi piace.