Terzo album della Rose City Band formata da Ripley Johnson (Wooden Shjips, Moon Duo) per scrivere musica in piena libertà , senza far programmi o pianificare lunghi tour. Non stupisce quindi che negli ultimi due anni si sia dedicato con rinnovato fervore a questo progetto, particolarmente adatto a essere portato avanti a ranghi ristretti, con la partecipazione di Barry Walker, John Jeffrey, Ryan Jewell e Sanae Yamada.

“Summerlong” uscito a maggio 2020 (ma scritto molto prima) celebrava il calore dell’estate, “Earth Trip” fa i conti con la pandemia e le sue conseguenze. Costretto a restar fermo per la prima volta dopo molto tempo, Johnson si è immerso nella natura che circonda la città  di Portland tra passeggiate e momenti di meditazione. Un’alternativa alla sindrome da stanza chiusa che ha colpito molti musicisti, senza derive new age. Il sound di “Earth Trip” non ha nulla di rivoluzionario rispetto al passato, rimane lucido e dinamico tra folk, country e psichedelia.

Stili che nel mondo del buon Ripley si mescolano spesso, completandosi e compenetrandosi a vicenda. La malinconica sorpresa di “Silver Roses” (“Fever broke, I won’t hurt anymore I’ve come home to stay / Called down off the road / Free fallin’ in the rain“) diventa stupore pochi minuti dopo, propiziato dall’armonica di “In The Rain”. Solo uno dei tanti strumenti (pedal steel, mandolino, piano, chitarre, organo, basso, arpa, percussioni) che arricchiscono “Earth Trip” e le sue storie di tempo perduto e tempo ritrovato.

Non c’è rassegnazione tra le note e le righe del sempre più barbuto Johnson solo un pizzico di dolce nostalgia, condita da un po’ di sano divertimento in “Ramblin’ With The Day” che vira verso il country più puro e incontaminato con spunti melodici decisamente notevoli in “World Is Turning” e “Rabbit”, un tocco tra contemplazione e misticismo (“Feel Of Love”) che contagia anche la riflessiva e soffusa “Dawn Patrol”.

Le evoluzioni estive della Rose City Band sono ormai diventate una piacevole abitudine, tra un passo e l’altro Ripley Johnson riesce anche a piazzare lunghi, sognanti, indolenti assoli elettrici e a coniare in “Lonely Places” una frase simbolo di questa strana ripartenza a metà : “Give me warm embraces not a telephone I need love, sweet love“.