Rintanato nella sua Nashville, il buon Grant Lee si è dedicato nel periodo di isolamento da pandemia a ricostituire il rapporto fra la tensione alla spinta per la speranza e quella verso l’abbandono e la sconfitta,   ragionando su come il vuoto da lockdown potesse contribuire a dirimere questa dualità , con gli infiniti spazi che la natura limitrofa gli concede, spazi anche immateriali dedicati alla riflessione personale che in qualche modo hanno permesso in questi due anni un’unione fra individui   dislocati   in tutto il mondo i cui effetti tuttora sono inesplorati.

L’ex leader dei Buffalo condensa questa sua esigenza in un album di una delicata sontuosità , con gli arrangiamenti che prendono tutto il tempo necessario all’interno di canzoni dalle strutture semplici ma meticolosamente studiate, frutto dell’intenso rapporto coi pochi fidati compagni di avventure, in particolare il batterista Jay Bellerose e la bassista Jennifer Condos , che donano un’unità  palpabile al suono, che inizia dalla prima e finisce all’ultima nota.

Phillips si destreggia alla grande all’interno di questo country rock raffinato e romantico, da grande crooner con quell’inconfondibile ed ancora intatto timbro di voce così persuasivo e profondo, riuscendo quasi sempre  ad attirare l’attenzione dell’ascoltatore alla prima battuta, un potere magnetico della voce che in questo “All that you can dream” trova forse mai come prima nella sua carriera una così alta valorizzazione, tanto che tutti i brani, al netto di un paio di episodi trascurabili verso la fine dell’opera, si sentono e soprattutto si risentono volentieri.

Canzoni che entrano sottopelle languide come la “Sudden place” iniziale, “Peace is a delicate thing” o la finale “All by heart”, con variazioni melodiche  che si imprimono nella mente e che portano ad essere canticchiate in quanto mature e in linea con una certa dimensione adulta e vissuta dall’alto dettaglio compositivo.

Un album che fonda le sue radici nel denso e minimale impasto fra la voce di Grant Lee e un’ambientazione country con note di un folk anche jazzato, che sa molto di larghe distese coltivate al tramonto, intervallate da un paio di momenti più onirici ed esaltanti, il top del disco la title track e “You can’t hide”, più strutturate ed evocative dove ci si inserisce in territori appunto da dream pop leggermente psych di reminiscenza Mercury Rev, nei quali l’appello alla consapevolezza del presente  si accompagna alla dolcezza di un suono che coinvolge ed aiuta alla riflessione sulle nostre potenzialità  così spietatamente messe alla prova.

Queste canzoni con la loro meditata architettura chiedono questo, in fondo, spingono per diventare parte della nostra routine, ci chiedono solamente di essere ascoltate fino a consumare le cuffie, oggetto iconico del desiderio dell’autore di Nashville, feticcio del musicista, tanto da essere immortalate in una copertina, che sa tanto di epica rock, mentre il contenuto rimane per fortuna morbido ed accogliente.