Nel nord dell’Oklahoma, una serie di omicidi sconvolge la comunità di nativi americani Osage. La loro maledizione, oltre che essere usurpatori di terre prese con la forza dai colonizzatori inglesi, è quella di essere diventati molto ricchi grazie al petrolio. La storia dell’oro nero americano, degli assassinii perpetrati e della famiglia Burkhart ce la racconta un Martin Scorsese in piena forma. Che non si addormenterebbe mai davanti ad un suo film, neanche se durasse una giornata intera.

Con un cast eccezionale a sostenerlo, finalmente il regista americano porta sul grande schermo una storia che da tempo voleva raccontare. Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) torna dalla Prima Guerra Mondiale nel profondo nord dell’Oklahoma dove, ad attenderlo, c’è suo zio William Hale (Robert De Niro) che lo accoglie non solo a casa sua, ma anche nella comunità Osage della zona consigliandoli caldamente di sposare la nativa americana Mollie (Lily Gladstone). In un turbine di trame di palazzo, omicidi e corsa all’oro nero, questa storia famigliare dovrà sopportare il peggio pur di rimanere e combattere per la propria terra.

Il regista voleva da tanto tempo mostrarci la grande strage degli Osage, una storia che poco viene raccontata e studiata. Per fare questo si è avvalso del saggio di David Grann “Gli Assassini della Terra Rossa”, fedele reportage degli avvenimenti di inizio secolo. Gli Osage sono una comunità che ha dovuto abbandonare le vaste terre del Kansas, emigrando di conseguenza nel nord dell’Oklahoma. Qui, dopo svariati anni, hanno scoperto che sotto i loro piedi, sotto la loro terra, c’era una vera e propria fortuna. Il petrolio. La ricchezza, subito arrivata a simbolo del dollaro, ha fatto sì che fossero loro a comandare la città di Fairfax. E non i bianchi. Il risentimento e la vendetta sono quindi conseguenza dell’usurpazione, ulteriore secondo gli statunitensi, delle terre e di ciò che è presente sotto.

Siamo lontani dal solito prodotto alla Scorsese. In questo caso viene abbandonato di gran lunga il filone narrativo dei capi di famiglia invischiati in loschi giri malavitosi nelle metropoli americane o delle gang di strada che cercano di conquistarsi pezzi della città, uno alla volta. L’obiettivo, in questo caso, è raccontare le crudeltà che sono state perpetrate a danno di queste povere comunità di nativi per la conquista del cosiddetto oro nero dell’Oklahoma.

La maturità artistica del regista è cosa certa. Non si può negare che questo sia un film degno del suo tempo, della sua storia e della sua produzione. Tecnicamente è ineccepibile: piani sequenza sparsi qua e là per dare più climax al momento che si sta raccontando; primi piani e zoom sui personaggi importanti, a non nascondere ogni espressione e reazione; le scene più crude e violente sono quelle che ci ricordano i prodotti cinematografici del regista di un tempo, ma sono ben inseriti e strutturati all’interno della pellicola. La narrazione, sotto svariati punti di vista, non vuole essere solo fatta dai bianchi per i bianchi ma vuole lasciare il posto principale, quello in prima fila della platea, proprio ai nativi americani. La storia è la loro, di nessun altro. Un grande aiuto in tale direzione è stato dato da Eric Roth nella stesura della sceneggiatura, già grande narratore di storie come in “Forrest Gump” (per il quale ha vinto l’Oscar) o “Dune”.

Fa storcere il naso la lunghezza del film. Martin Scorsese non è di certo un personaggio facile, quello che pensa e poi dice per lui è verità assoluta. Per tre ore e venti minuti molti momenti risultano lenti e stopposi: non sono un regista, ovviamente, ma avrei tagliato molto. Una storia del genere, per quanto pathos vuoi metterci in ogni singolo fotogramma, può essere raccontata in molto meno. La gente parte in partenza prevenuta da tale durata e quindi difficilmente viene convinta ad uscire di casa per andare al cinema. Tale sforzo, poi, può vanificare l’attenzione durante la visione portando lo spettatore ad implorare pietà purché il film finisca.

In una recente intervista, un giornalista riportò al regista tutte le preoccupazioni degli spettatori riguardo la durata del film aggiungendo, alla fine, che la maggior parte di loro avrebbe aspettato l’uscita sulle piattaforme streaming. Il senso, ovviamente, era che almeno a casa si può spezzettare meglio il film in diverse giornate. Scorsese, con la sua dolce e amabile franchezza, rispose sostenendo come noi poveri cretini passiamo il tempo ogni giorno sul divano a fare bingewatching e, di conseguenza, cosa cambiava col starsene seduto su una poltroncina di un cinema per tre ore?

Martin Scorsese può dire e fare quello che vuole. A volte c’azzecca e a volte sbaglia la mira. Può fare un film lungo ore, ma comunque la gente in un modo o nell’altro andrà a vederlo. Perché comunque lui rimarrà sempre Martin Scorsese e, come per “Killers Of The Flower Moon”, i suoi film capolavori del cinema.