Kashmir.
Nome che probabilmente le centinaia di indie liber-teens sparsi sul nostro bel territorio stivalitalico avranno già  captato in precedenza, vuoi per il look modaiolo-trasandato della band, vuoi per una canzone accattivante come “Rocket Brothers” che un paio d’anni fa girava “addirittura” su Mtv Brand New. Nome che invece non dirà  proprio niente alle altrettante nutrite e compatte schiere di ragazzotti/e con la felpa della FIAT e le scarpe firmate, ma che potrebbe seriamente aiutarli a risolvere alcuni problemi del loro griffatissimo subconscio. Ah, se solo sapessero. Vabbèh”…anyway”…that’s it: questo disco è tutto ciò che io avrei sempre voluto dai Radiohead e cioè un soffice intreccio di chitarre elettriche che sfiorano la poesia per poi aggrovigliarsi con velocità  e rancore abbattendosi sul mondo, supportate da una tristezza di fondo che riaffiora dalla voce malinconica di Kasper (che non è il celebre fantasmino ormai milionario e donnaiolo, ma il cantante della band).

Questo disco, lanciato dal singolo “She’s Made Of Chalk” e che in Australia esce oggi, circola già  da un bel pezzo in molti paesi Europei che però sembrano ancora non riconoscere appieno le potenzialità  di questa indie rock band danese, da tutti etichettata troppo presto come la perfetta copia dei super paranoici Oxfordiani teste di radio. Mai errore fu più grave da parte dei media.

Insomma, cazzo, se David Bowie (David Bowie mica mio cugino”…con tutto il rispetto per lui e il suo gruppo) decide di cantare una strofa nella terza traccia del disco e Lou Reed (Lou Reed, mica vostra zia”…con tutto il rispetto per lei e per la doccia, che deve tapparsi le orecchie oltre che far scorrere l’acqua calda”…) decide di recitare una poesia in un’altra, allora forse qualcosa di buono ci dovrà  pur essere. Qualcosa di buono c’è. Il disco è pieno di momenti che non lasciano spazio alla minima distrazione, si rimane incollati alle casse come le mosche”…no”…vabbeh”…oggi per paragoni, metafore e affini non è il caso”…ma tanto penso abbiate capito bene. Sarebbe riduttivo nonchè fortemente controproducente descrivere secondo per secondo i passaggi salienti di un disco che rimane un blocco d’emozioni e di soffici intrecci sonori. Punte elettrificate ben saldate a terra su cui buttare a peso morto una parte del vostro stress quotidiano. Indie rock di ottima fattura senza hype e senza riviste da due soldi che leccano i piedi. Una rarità  al giorno d’oggi.