Con una frequenza degna del miglior periodo di Woody Allen, Jurado torna con un nuovo album, il numero 18 in 25 anni, ricordandoci ancora una volta che le storie dimenticate, le pause della vita di soggetti qualunque sono libri interi da scoprire a bocca aperta, scrigni che contengono l’imponderabile bellezza attorno a noi.

Un po’ come ancora una volta ci racconta la istantanea di copertina, è il passaggio dei momenti quello che conta, la casistica delle nostre scelte focalizzata in attimi che potrebbero dilatarsi all’infinito e di cui probabilmente non fregherà  mai niente a nessuno, ere di aspirazioni e condensati di speranze che ci atttorcigliano e diventano per noi magma così grande che la dimensione fisica delle cose scompare, come in una grande bolla.

Ecco, Jurado penetra ancora una volta nelle bolle delle persone normali, col suo incedere folk minimale e classico, in questo “Reggae film star” però in tono leggermente più monocorde e autoreferenziale rispetto al precedente “The monster who hated Pennsylvania”, con canzoni che forse si prendono un pò troppo sul serio, quando addirituura pretendono di essere tali mentre si tratta solo di accennati bozzetti; in sostanza,   come altre volte nella sua carriera gli è capitato,   si sente la mancanza di un aiuto esterno o di qualcosa che strutturi un pò questi brani, che riempino anche dal punto di vista sonoro lo spessore dei contenuti lirici.

Rimane questo comunque un disco caro, che insomma alla fine fa tenerezza e certo anche un pò piacere ascoltare nei suoi momenti migliori, come il singolo “What Happened To The Class Of ’65?” o “Taped In Front Of A Live Studio Audience”, che appunto dimostrano che il gusto melodico quando si accompagna ad un minimo di band coesa attaccata ad un ritmo che vira al pop, sposta l’attenzione e accompagna la canzone verso lidi decisamente più apprezzabili; altrove si trovani ballate strappa emozioni come la calda “The pain of no return” e “Gork Meets The Desert Monster”, crepuscolari momenti di empatia universale di Jurado che gioca con l’originalità  del suo timbro straniante, creando struggimenti decisamente sentiti, che chiudono in bellezza l’album.

Un album un po’ spuntato che risente della sfrenata esigenza dell’autore di incidere qualsiasi cosa gli passi per la testa, ma che continua, anche con monenti qualitativamente buoni e ispirati, nel percorso di esplorazione  della trincea emotiva delle nostre anonime, splendenti esistenze.