Senza voler fare troppo i complicati si potrebbe parlare di “Manafon” come del processo di decostruzione del testo attuato da Jacques Derrida. Un discorso, un insieme di parole contiene in nuce una miriade di piccoli errori o contraddizioni. Operando sulle stesse, e dunque annullandole, si arriva ad un punto oltre il quale non è più possibile andare, ovvero all’aporia, alla mancanza di risorse, all’imbarazzo dialettico e dunque alla morte dei concetti.
Per farla facile, dicevo, basterebbe portare il concetto di ‘decostruttivismo musicale’ nell’ambito della nostra discussione e vedremmo come il minimalismo sonoro attuato da David Sylvian altro non sia se non una stesura aporica, uno spogliare la musicalità  delle sue debolezze per renderla materia compatta e, dunque, inattaccabile.

Detto ciò potremmo chiudere qua la recensione di un disco perfetto e dedicarci alla lettura di robaccia alla Coelho o della programmazione televisiva nazionale. Tutto ciò che venisse da qui in avanti sarebbe dunque esercizio retorico puerile e inutile ma se dessimo atto alla nostra coscienza di aver imparato a discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è, di certo non troveremmo corretto il venirlo a rendere pubblico.
Dunque “Manafon”, dicevamo, è la sintesi pragmatica di processi minimalisti iniziati da gente come Morton Feldman su album come “Complete Works For Two Pianists” che sembrano fornire le non-dinamiche necessarie a Sylvian per intessere quei lavori a-ritmici che rendono il suo nuovo lavoro così unico e imperfettibile.
Non a caso, infatti, è proprio il maggiore interprete della musica di Feldman, il pianista John Tilbury, ad occuparsi dell’accompagnamento presente in quasi tutte le tracce di “Manafon”, a manipolare il suo strumento fino a farlo diventare una metafora del concetto stesso di pianoforte, a svilirlo e a renderlo sublime.

L’album è stato registrato nel corso di 3 anni in 3 località  diverse (Tokyo, Londra e Vienna) ma per la sua finalizzazione sono serviti pochi minuti per ogni traccia allo stesso Sylvian che si è trovato ad improvvisare, cucire e tagliare interi brani, snaturandoli fino a renderli ‘privi di risorse’, aporia poetica.
La voce qui è la sola melodia e le sillabe sono le percussioni entro cui sviluppare del rumorismo coadiuvato dall’ormai solito Fennesz in metriche solo all’apparenza casuali e innaturali.
“Small Metal Gods” appare come il momento più distintamente tradizionale dell’album, forgia la sua descrittività  in una narrativa asciutta, crepuscolare, di un romanticismo quasi accademico che rende al meglio la solitudine di un uomo che rigetta il suo credo.
Eppure la prima resta la traccia meno ambigua del lotto, la meno affranta e pessimista soprattutto se paragonata alla tragica “The Rabbit Skinner” o alle note di un suicida in “The Greatest Living Englishman” come se la mancanza di una musicalità  classica fosse la catarsi espressiva del gesto poetico: come se la mancanza di un impianto sonoro ripulisse lo spirito dalle storture e i disagi di ogni giorno.

Proprio perchè a noi piacciono le cose semplici, sconsiglieremmo l’ascolto ai poco pazienti o a chi ama essere trastullato da un album. Qui siamo di fronte all’essenziale e alla poetica pura in cui anche i silenzi tra le parole sono ritmo, risorsa estrema di chi ha svegliato la propria musica, l’ha spogliata di tutto e l’ha lasciata nuda su un disco aspettando che qualcuno la salvasse.

Manafon
[ Samadhi Sound – 2009 ]
Similar Artist: Brian Eno, Nick Cave
Rating:
1. Small Metal Gods
2. The Rabbit Skinner
3. Random Acts Of Senseless Violence
4. The Greatest Living Englishman
5. 125 Spheres
6. Snow White In Appalachia
7. Emily Dickinson
8. The Department Of Dead Letters
9. Manafon