Sembrano proprio aver bruciato in gran fretta tutte le tappe che portano un gruppo giovane e sconosciuto ad essere atteso e seguito ai concerti di promozione del disco. E così l’8 febbraio, un qualsiasi lunedì di scarsa presa e stimolo, i Local Natives riescono a riempire La Casa 139, in via Ripamonti a Milano, pur avendo al loro attivo un solo disco pubblicato, l’ottimo “Gorilla Manor”, in circolazione già  da un po’ di mesi. La fila all’ingresso del locale e l’affollamento che si ritrova successivamente all’interno lo dimostrano, e così l’entusiasmo con cui i presenti sottolineano durante il concerto le canzoni più conosciute ed apprezzate, partecipando con cori e battimani a sottolineare ritornelli e ritmi della maggior parte delle loro prime dodici proposte sonore.

Complici forse una serie di ottime recensioni in Italia ed all’estero, da parte anche e soprattutto di riviste cartacee ed elettroniche particolarmente quotate e considerate a livello di creazione di “hype” e di formazione di gusti musicali giovanili. Non solo per questo ovviamente, perchè l’indubbia piacevolezza ed immediatezza delle loro canzoni supera evidentemente i limiti di un genere, a grandi linee inquadrabile nel folk-rock americano, che qui da noi non gode dopotutto di un grande seguito nella fascia d’età  che era invece presente quel lunedì sera.
Le dimensioni del locale hanno certamente aiutato a rendere l’atmosfera calda e palpitante, a partire dall’apprezzabile set di apertura degli Iori’s Eyes, giovanissimo trio italiano che in versione acustica sembra omaggiare l’irrequietezza e la spontaneità  dei primi Violent Femmes, con un folk molto ritmato ed impulsivo. Bravi ed apprezzati, smuovono il pubblico e riempiono l’attesa per il quintetto californiano, che sale sul palco accolto da applausi e qualche grido d’incoraggiamento. Il leader, se così si può chiamare, il baffuto e corvino Taylor Rice, prende subito il microfono, saluta e parte, aprendo il concerto con uno dei pezzi più interessanti del disco, “Camera’s Talking”, scatenando in un attimo l’entusiasmo del pubblico.

Uno dopo l’altro, i Local Natives propongono quasi tutti i pezzi del loro cd d’esordio, seguendo una scaletta attenta ad intervallare i momenti più ritmati con altri riflessivi e raccolti, quasi acustici, ricreando anche dal vivo quei frequenti cambi di ritmo che sono uno dei tratti più rappresentativi della loro proposta sonora. La partecipazione del pubblico cresce nei brani più conosciuti, come “Airplanes” e “Shape Shifter”, e con il calore che alcune code trascinate e infuocate da un po’ di elettricità  trasmettono, come nella conclusiva “Sun Hands”.
Dopo quasi un’ora, senza bis, senza pezzi nuovi e senza cover, all’infuori della “Warning Sign” già  presente sul disco e riproposta con ottimo piglio, il concerto si chiude. E tutto sommato potrebbe essere giusto così. I ragazzi devono ancora crescere, e anche se il loro punto di partenza è indubbiamente di buon livello, alla lunga la loro ricetta sonora risulta ripetitiva. Gli schemi compositivi su cui le canzoni sono costruite manifestano dal vivo in maniera ancora più evidente una certa monotonia, poichè gli impasti vocali risultano logicamente più grezzi e a tratti confusi, indistinti tra una canzone e l’altra a furia di ripetere coretti e sottolineare tracce melodiche in maniera semplificata. Latita un po’ di improvvisazione, tanta è la paura di non riuscire a trasmettere fedelmente la proposta musicale creata in studio. Un timore che sicuramente verrà  meno col tempo e con l’esperienza, perchè sicuramente le capacità  tecniche ci sono, la passione e l’energia pure. Dovrebbero solo essere incanalate maggiormente verso una voglia di elaborare e divagare sul canovaccio melodico già  ricco delle belle tracce proposte.
Aspettiamo, tempo e doti come già  detto non gli mancano di sicuro.

Photo Credit: Henry Laurisch / CC BY-SA