C’è chi lo scrive nel vento e poi l’impasta con la polvere del deserto.
Le rocce possenti troneggiano come cattedrali derubate dei loro orpelli, ma tra le anse ombrose di fiumi di terra e prati verdi, un’eco fragile incanta la natura circostante. Si arresta il flebile moto perpetuo del divenire e l’intricato ingranaggio si svela per quello che è, come quando tutto si scioglie all’ascolto di una canzone che pareva perduta per sempre.

Mi attardo a pensare che devi essere fatto di legno di quercia e candide pietre di marmo per tramare una musica del genere, così antica e completamente fuori moda, talmente distante da qualsiasi sciocco progressismo giovanile, che ti vien quasi il dubbio che sia reale. Il linguaggio moderno o meglio post-moderno ““ leggi: dimenticare la semplicità  della sintesi ““ trova difficoltà  dinanzi alla nudità  delle cose, sbiadisce e raramente coglie il senso. Spesso quando non si ha nulla da dire, si dice troppo.

Sam Amidon ci aveva già  fatti secchi al giro precedente, quando declinò tutti i possibili tramonti dell’universo nel delizioso florilegio di canzoni che componevano “All Is Well”. Ora si viene a prendere l’altra metà  del cuore e lo fa nel suo stile, in punta di piedi, come una morbida foschia che torbidamente ottunde i sensi, lasciandoci cadere in un carezzevole deliquio di nostalgia e melodia.
In “I See The Sign” il gioco si fa decisamente più interessante, il suono diventa più corale, corposo, si nutre di un’ispirazione genuina e delle splendide orchestrazioni operate dal compositore ed amico Nicho Muhly, il quale elargisce la propria epica visione del mondo nel mantello sonoro di fiati ed archi che agghinda spiazzante le canzoni dell’album. Accanto a questa modernità  di concepire un disco folk, c’è la voce gentile ed intensa di Amidon, spiazzante per limpidezza, tremolante ed accorata quando racconta con gusto le piccole storie della sua terra, dei monti Appalachi, anime che danzano leggere attorno ad un fuoco serale.

Valgeir Sigurdsson (già  al lavoro con Bjork, Mùm e Ben Frost tra gli altri) come al solito produce, dosa gli ingredienti, ammalia e dona profondità  e carisma a vecchie nenie da prateria, stuzzicando il talento del giovane americano, che nel frattempo fa suoi tutti gli strumenti della tradizione, dal banjo, di cui è un suonatore eccellente, fino al fiddle, un tipo di violino usato nella musica popolare, creando un impasto intrigante di elementi ritmici e melodici. Di tanto in tanto fanno capolino Beth Orton e Thomas Bartlett (Doveman) ed in quei momenti l’universo sembra davvero avere un significato preciso.

Difficilmente in giro oggi capiterà  di trovare qualcuno che riesca ad esprimersi musicalmente sui livelli di Sam Amidon, a rendersi così caratteristico, riconoscibile ed avanguardistico quarant’anni dopo che Bob Dylan sparigliò le carte sul tavolo incrostato del folk: ed è per questo che tu, caro lettore, devi or ora precipitarti a consumare questo disco, godendo a piene orecchie della timida bellezza che si cela tra questi solchi.