Fiori, petali, vento sulle guance, colori cangianti, la percezione irrisolta e pertanto irresistibile di volere confrontare le proprie sensazioni confortevoli in un ambiente più intimo, entro i limiti di ciò che si può raggiungere con la vista, andare non oltre il campo visivo per poi trovare lo spunto per riflettere e ridimensionarsi: e sì che il ritorno dei Daughter sembrava contenere le premesse di un nuovo slancio a 6 anni di distanza dal precedente lavoro, una eternità condita dalla pandemia, mentre le aspettative anche legate ad un discreta importanza dell’assetto produttivo che sono trapelate (album prodotto in 3 sedi, anche Bristol dal pulsante cuore trip hop infranto) si dissolvono felicemente in una specie di affinamento involutivo, una ricerca ancor più marcata della propria sintonia come band e come singoli interpreti che fa di “Stereo Mind Game” il capitolo più omogeneo e sincero del trio britannico.

Credit: Bandcamp

La folktronica aggiornata con intarsi psichedelici dai contorni attutiti qui si fa volentieri contaminare dall’intreccio con il dream pop morbido del mood dei Beach House meno elaborati e lo shoe gaze dei mai dimenticati Slowdive, dove il senso ma forse anche il limite della band sta nel controllo del caldo amalgama, del tono volutamente calmo su cui si improntano le canzoni, che si snodano su esili architetture sonore, in cui però interviene un lavoro di raffinato incastro nelle entrate ed uscite degli strumenti, il tutto quasi ad assecondare ed in perenne osmosi con la tenera, fragile voce sussurrante di Elena Tonra; batteria a volte elettronica, organo, partiture, sembrano ammaestrati per il trasporto verso una dimensione onirica e non aggressiva, come se i Daughter si guardassero un pò da fuori prendendoci per mano cercando di rendere tattile la percezione del fiore stilizzato in copertina, sfiorando a volte il senso del perfezionismo, dell’eccesiva scrittura se non della prevedibilità di certi arrangiamenti, piuttosto che una ripetitività che tocca il soporifero. Sarà che questo tipo di musica non può portare a nulla di nuovo per definizione e che forse il meglio di sè l’ha già dato ma “Stereo Mind Game” risulta un disco comunque sincero se si riesce ad ascoltarlo più volte e superare la patina di pretenziosità che inevitabilmente arriva al primo ascolto, magari lasciandosi conquistare da i brani migliori e più orecchiabili come “Party” o “Future Lover”.

Si respira una diffusa aria di delicatezza, quasi invidiabile, un pò ovunque, come se appunto si voglia ostentare uno stato di pacifica armonia del ristretto numero di musicisti che intersecano al sincrono le loro performance in canzoni crepuscolari, a volte decadenti, da giornate in cui il caos attorno a noi si fa opprimente e diventa necessaria l’esigenza di allontanare l’agitazione di impegni febbrili, momenti in cui dedicarsi ad un lento, morbido e accogliente adagio su un disco, che prova a giocare col nostro cervello, prova ad confondere, ma la soluzione non è un trucco, è tutta una questione di vibrazioni.