Saranno almeno trenta volte che mi siedo per scrivere questa recensione e poi mi rialzo non trovando le parole esatte per comunicare cosa ho trovato nel quinto album di Cass McCombs, ex nomade dell’indie americana oramai di stanza a San Francisco.

Avrò ascoltato per lo meno venti volte “Wit’s End” e solo ora, mentre la data di uscita si allontana inesorabilmente vanificando lo sforzo di scrivere di un’opera che rischia di perdersi nel marasma delle uscite discografiche pre-estive, trovo il coraggio delle mie idee. Questo disco non mi piace, non mi piace perchè è lento, con pezzi troppo lunghi, levigati fino all’esasperazione, inutile ma non abbastanza da potersi dire naif. Eppure ne ho letto un gran bene su Pitchfork, la bibbia praticamente, come mi permetto di scrivere o anche solo di pensare queste cose? Ma questa è l’unica via per portare a casa la recensione che ho voluto fare.

Le canzoni di Cass McCombs denunciano una palese mancanza di immediatezza, di necessità  di comunicazione; certo son ben suonate, riccamente arrangiate, dal sapore notturno e ammiccante, perfette, perfettamente perfette. Noiose. Nelle vene di queste otto tracce non scorre il sangue nero della sofferenza, ma neppure quello rosso della vita vissuta e non bastano certo titoli come “Buried Alive”, “Hermit’s Cave” o “The Lonely Doll” per far cambiare il mio giudizio. “Wit’s End” è il correlativo oggettivo di un mojito sui Navigli, del sugo bolonnaise dei ristoranti “italiani” all’estero o del ketchup nel kebab: una colpevole finzione.

Ecco perchè ne ho letto un gran bene su “Pitchfork”, perchè su quelle pagine si privilegia la novità , spesso fine a sè stessa oppure il lavoro di facciata. Ma se il gioco può reggere quando parliamo dei “nuovi generi” (che poi nuovi non lo sono mai), qua non ce la fa perchè i grandi autori del folk lo sono anche grazie alla capacità  di “sporcarsi” con la vita, di sgualcirsi la camicia che Cass indossa perfettamente stirata.