La cultura pop dei giorni nostri ha qualcosa di diverso rispetto alla sua cugina americana. Ne scopiazza le tematiche – già  viste – ma gioca a fare la primogenita romoliana, con un atteggiamento indipendente che nasconde sul retro un fare dispotico. Rifiuta, ad esempio, l’epiteto ‘pop’, preferendo di gran lunga anglicismi impronunciabili che variano molto più velocemente dei caveau code del Bellagio, Las Vegas – qualcuno parla addirittura di mutazioni neutrine. Altra differenza è che il pop di Warhol era uno scherzo, una presa in giro; qui invece i profeliti sono serissimi.

Nella Bristol sali e scendi, il campo del possibile è molto ridotto. Si può scegliere, come in tutte le periferie, la via della chiusura (leopardismo) o quella della droga (provincialismo), legate tra loro in un rapporto inversamente proporzionale a favore della seconda. Anche in Marocco le cose non cambiano molto. Il sole è più nitido di quello inglese, ma lo stile tragi-alcolico non interrompe comunque la sua marcia verso il precipizio. Sulla tela fotografica nascono nuovi e accecanti colori. Rossi magenta, azzurri lucidi, e giallo-verdi fosforescenti stile Stabilo Boss. Gli amici diventano nemici, e i nemici diventano amici (vedi “Wes Anderson” de I Cani). Mini vede sbiadire il tocco cool, Franky la verginità , e Grace un posto nell’immaginario dei giovani lentigginosi. Tornati nella terra d’Albione, i costumi dei ragazzacci si radicalizzano ulteriormente. Risorgono i traumi e gli improbabili intrighi, che la visione superficiale della sceneggiatura, risolve con il placebo ‘let’s get fucked’. I vestiti si accorciano diventando adatti a un clima esotico. La luce dei tramonti si tinge di un viola-blu decisamente irreale, acceso da un cielo fantascientifico che sembra ingiallito dall’ultima versione di Instagram. L’ansia divora perfino le musiche, che passano dall’indie all’electro-pop. Il tutto finisce però strappando un finale pieno di positivismo. Ammissioni a college prestigiosi, riunioni di famiglia e occhi neonati con cui guardare il mondo. Non si capisce bene come ma la somma torna, malgrado nei passaggi intermedi ci si sia un po’ persi per strada.

La sesta stagione di “Skins” si auto infligge un seppuku per niente eroico, dettato piuttosto dalla noia. A stufare non è tanto il piattume della trama, quanto l’idea che la base della serie sia sempre la stessa. Il restyling è insomma povero, e la maschera di cera si scioglie prima di poter sedurre.