Questa è una recensione un po’ diversa dalle altre: non ho la pretesa di cogliere il significato del film, anche perché ritengo che questa sia una pellicola tipicamente post-moderna, che lascia spazio a molteplici letture, con il regista sceneggiatore che non vuole essere il “padrone” della propria opera e che non intende trasmettere un messaggio univoco. E, infatti, mi ha stupito che vari siti
specializzati abbiano colto quasi solamente l’aspetto della serenità del protagonista. Secondo me, qui c’è molto di più. E il formato 4:3 con cui è girato il lungometraggio dovrebbe farlo capire fin dall’inizio.

Sgombriamo subito il campo: questo è un grandissimo film e non è un film per tutti: non lo è per chi non indugia nella riflessione, non lo è per chi ama l’azione in senso lato. Hirayama è un single sessantenne che vive in un monolocale di una zona povera di Tokyo. Di mestiere pulisce i bagni pubblici del progetto “The Tokio Hotel” nel quartiere di Shibuya. In effetti questo doveva essere un documentario sul progetto stesso ed era stato commissionato espressamente a Wim Wenders. Alla fine, però, il regista ha preferito realizzarlo come un’opera narrativa. Nella prima mezz’ora viene mostrata la routine ossessiva di Hirayama, un uomo che svolge il suo lavoro con una dedizione assoluta e che durante la settimana ripete gli stessi identici gesti, stando attento a ritagliarsi del tempo per sé: una foto agli alberi a pranzo nel parco, la coltivazione in vasi di germogli che innaffia prima di andare al lavoro, il relax nelle terme pubbliche e la cena in soli due posti, uno riservato ai giorni di lavoro e l’altro ai giorni liberi; infine, la lettura di moltissimi vecchi libri prima di dormire.

Hirayama parla pochissimo, anche quando interpellato, ma mostra un rispetto ammirevole per gli altri. Inoltre è un uomo che vive in modo analogico: fa le foto con una Olympus a rullino e ascolta musicassette in auto. Ciò che ascolta, alcuni tra i migliori brani rock del ventesimo secolo, è anche la colonna sonora del film. Di notte sogna in bianco e nero di fronde di alberi e brevi flashback della giornata. Quando non lavora fa le faccende di casa, ritira le foto e le cataloga in scatole ordinate per mese ed anno.

Passata la prima mezzora, si ripete il tutto, diverse volte, ma con piccole variazioni. Allo spettatore viene chiesta pazienza: qualcuno non l’avrà, altri inizieranno a capire che dovranno partecipare alla costruzione del significato, che è il bello di quest’opera. Hirayama non si agita quando viene modificata la sua routine perfetta, vuoi dalle avventure amorose del collega o dalla visita di Niko, nipote in fuga. Niko verrà recuperata in seguito dalla madre, la ricca sorella di Hirayama. E lì scopriamo che il passato dell’uomo è tragico, anche se Wenders non ci dirà null’altro a riguardo.

Il finale è la parte da non svelare ma che apre le porte alle interpretazioni, anche se il regista ce ne dà una ex-post, attraverso la parola giapponese “komorebi“, che significa “la luce che filtra attraverso le fronde degli alberi“. Un messaggio di speranza, un invito alla serenità, certo, ma – personalmente – mi hanno impressionato più le sfide affrontate dall’uomo.
Hirayama non ha amici, è quasi completamente solo: conosce persone che vede solamente perché facenti parte della sua routine. Alla mattina esce e guarda con un sorriso il cielo, gli alberi e l’immensa Tokyo Sky Tree, la modernissima antenna della televisione che domina la città con i suoi 634 metri. L’antenna è dio, un monolite di Kubrickiana memoria, che in realtà non interviene nelle vicende umane, ma si fa ammirare e la cui vista ispira. Compare più volte nell’arco delle ventiquattrore e sparisce solamente quando Hirayama perde le staffe a causa di un problema sul lavoro. In quel giorno il protagonista non ha avuto tempo di concentrarsi su quelle cose che lo fanno stare bene. Egli ha bisogno di vivere in un presente cristallizzato (vedasi il ricorso esclusivo
all’analogico e niente TV) per fargli dimenticare o sopportare il peso del passato. Hirayama combatte quotidianamente per far pace con i propri errori, ma lo fa autoescludendosi dalle relazioni, spesso pure da quelle verbali. Anche uscire dalla città non è tra le opzioni: “il mare lo vedremo un altro giorno” dice alla nipote. Per lui contano solo qui e adesso. E lo dice chiaramente anche a Niko: “adesso è adesso“, un momentum da vivere appieno nelle piccole e piccolissime cose. Senza rischi dati da viaggi o interazioni umane più approfondite. Riesce ad accettare solamente dei piccoli imprevisti, che – fortunatamente – muovono quelli che altrimenti sarebbero un eterno giorno della marmotta.

Non servono voli pindarici, è necessario vivere nel presente e darsi risposte semplici. Hirayama lo fa capire anche all’uomo malato che incontra casualmente, ragionando con lui sul significato dell’esistenza. Semplicità, dignità, rispetto sono i messaggi che ci vengono porti dal personaggio principale… ma davvero è sufficiente tutto ciò per attraversare serenamente la vita, in solitudine, dentro il proprio piccolo mondo? Guardate attentamente l’ultima scena e datevi una risposta. Sarà comunque quella giusta. Solo così capirete se possono esistere tanti “Perfect Days” uno in fila all’altro.