Partono più che discretamente i Foals di “Holy Fire”: “Prelude” e il singolo “Inhaler” sono due botte non da poco; la prima con un pulsare vivo che sottende voli chitarristici di riff appena abbozzati e voci urlanti, la seconda partendo come un safari tropicale dal groove imponente e continuando con progressioni che sfociano in orgiastico hard-rock al grido di “Space!”

Si fosse diviso tra questa linea e quella opposta eterea, spaziale e trasandatamente(ma credibilmente) malinconica della conclusiva “Moon”, il quintetto di Oxford avrebbe confezionato un lavoro davvero niente male. Purtroppo, però, (quasi tutto) il resto della scaletta si dimostra non all’altezza, rotolandosi tra pericolosa e assonnante ovvietà  e scarsa audacia e adagiandosi su atmosfere eighties pop e dance-punk 2000 con strizzatina d’occhio a caligini new-wave. Avete presente quella scena di “High Fidelity” in cui il protagonista Rob dice di voler ascoltare musica che può ignorare? Ecco, Rob, prova con questo. Tenuto magari non ad altissimo volume, altrimenti potrebbe risultare disturbante.

Il tropicalismo di targa Friendly Fires regna padrone in “My Number”, mentre in “Bad Habit” fanno capolino i Bloc Party; “Everytime” ha qualche sussulto Rapture e per un momento sembra poter fare la sua porca figura in un indie-dancefloor, salvo poi perdersi in un ritornello alquanto banale sia nella melodia che nelle parole (Everytime I see you, I want to sail away). In “Milk & Black Spiders” ci si muove nel pathos synthetico trito e ritrito, in quell’esuberanza malinconica da incompreso in stile Everything Everything per intenderci. Così come nella successiva “Providence” del resto, in cui quantomeno alla fine si recupera un po’ di quella ruvidezza (anche tamarra se vogliamo, ma almeno graffiante) dell’incipit.
Va dato atto a Philippakis e soci di aver riservato una cura certosina all’aspetto sonoro, ma di sussulti, chi scrive, ne ha avuti due all’inizio e uno alla fine. Nel mezzo, pressochè nulla. Piacevole sottofondo da spiaggia indie-fighetta con i piedini che battono e le testoline che dondolano sorseggiando un cocktail con l’ombrellino. Musica che non stimola, che non innova, che non aggiunge nulla a quella che già  è in giro.

Ecco quindi il perchè del rating.
A molti “Holy Fire” piacerà , è fuori dubbio: è ballabile, in alcuni frangenti il mood si fa “riflessivo” (mi riferisco al pathos synthetico e all’esuberante malinconia di cui sopra), in breve è “alla moda”. Per quanto sia l’ennesimo album di una folta risma, piacerà .
MA
cosa ci si aspetta dalla musica? Un rifacimento tutto sommato pedissequo a ciò che si ascolta da un po’ oppure qualcosa di destabilizzante e personale, originale e innovativo? è pacifico che non manchino lavori che, pur frullando (inevitabilmente) influenze e ascolti, pur essendo “trendy”, va là , aggiungano una cifra personale al risultato finale. Il punto però è che qui questa cifra sembra proprio non esserci, e se c’è non è abbastanza a salvare il tutto, diciamolo, dalla noia. Perciò, concludendo, questo album è un buon rimescolamento di quanto di modaiolo lambisca timidamente il mainstream alla MTV negli ultimi anni. Se apprezzate tutto ciò, aggiungetele voi le stelline: io più di tante, dopo svariati ascolti e tentativi di trovare motivi per dare qualche voto in più a questo lavoro, a malincuore, non riesco proprio ad accenderne.

Credit Foto: Alex Knowles