La prima volta che ho sentito parlare di Lorde è stato quando, alla pubblicazione in free download del primo EP della neozelandese, il blog belga Disco Naivetè, da sempre in prima linea sui nuovi nomi della cricca indipendente e un po’ più affascinato rispetto a tanti altri dalla casistica più commerciale riportò la notizia citando un tweet di Grimes, altra miracolata dalla blogosfera, che ne tesseva le lodi come promessa del pop. Probabilmente nessuno dei due si sarebbe mai aspettato che la sedicenne nell’arco di qualche mese sarebbe riuscita a sfondare prima in patria, poi nella Billboard Alternative Chart e infine nella US Billboard Hot 100, la classifica dei singoli più venduti in America, creando un piccolo fenomeno costellato di record vari. Non che la cosa in sè rappresenti poi un caso così eclatante, la recente storia discografica è piena di piccole meteore pseudoalternative che vendono tantissimo per qualche settimana e tornano nel dimenticatoio. Più interessante piuttosto, nel caso Lorde, è vedere come la giovane abbia proseguito il successo del singolo nell’album di debutto.

Il primo EP “The Love Club” seppur piacevole, non ha rappresentato poi una così sconvolgente innovazione nel mondo del pop, proponendo tuttavia dei buoni brani su cui spiccano la hit “Royals”, semplicemente costruita sul battito di una drum machine, e la ballata d’apertura “Bravado”. Interessante comunque è come la teenager, che nell’EP come nell’album di debutto scrive tutti i brani e ne è coproduttrice, divaghi tra le consolidate ritmiche hip-hop associate ad armonie sintetiche, a meno convenzionali sonorità  dub e altre ricercatezze che per la prima volta sembrano voler aggiungere qualcosa alla rodata formula Del Rey, alla quale tuttavia sembra sempre più avvicinarsi nei successivi singoli “Team” e “Tennis Court” (pubblicato, quest’ultimo, in compagnia di una cover dei Replacements – a cui farà  seguito una discreta cover live dell’ultimo Kanye West). Lecito è quindi stupirsi, all’ascolto dell’album, di come solo i sopracitati singoli si ispirino ai successi della pilotatissima Del Rey, preferendo dirigersi verso un pop elettronico minimale piuttosto inaspettato.

Dopo il singolo “Tennis Court”, “Pure Heroine” si apre con “400 Lux”, forse l’apice stesso del disco, un midtempo tra fasci sintetici poco rassicuranti e più intimi organi di scuola Beach House; “Royals”, complice anche il disgusto che, irrimediabilmente, finiscono per provocare le grandi hit dopo un tot di tempo, sfigura col precedente brano così come con la successiva “Ribs”, che accellera il ritmo con uno spedito battito di base e synth sempre più rarefatti e confusi. Se la successiva “Buzzcut Season” pecca un po’ di leziosità , e “Glory and Gore” malgrado i buoni bassi del ritornello puzza un po’ di già  sentito, le conclusive “White Teeth Teens”, tra percussioni sincopate e trombette al vocoder e la più rapida e facile “A World Alone” chiudono egregiamente un disco che, se continuasse a vendere sulla scia di “Royals”, non si esclude possa riuscire a muovere realmente qualcosa nello stantio mondo del pop attuale.

Credit Foto: Andrew Whitton