Se la loro fosse una serie televisiva americana si chiamerebbe The Followills. E narrerebbe le vicissitudini di tre fratelli e un cugino di Franklin, Tennessee, saliti alla ribalta del rock mondiale. Di un padre predicatore che divorzia dalla propria moglie a seguito di problemi con l’alcol. Di un vizio passato in eredità . Di viaggi in giro per l’America. In un percorso di allontanamento doloroso, di crescita, riscatto e di redenzione. Se fosse davvero una serie televisiva la puntata pilota verrebbe affidata ad Abel Ferrara e avrebbe i colori scuri, il fetore di whiskey stagnante e il suono spigoloso di chitarre blues e country. Il successo ne garantirebbe più di una stagione.

Tornati dopo un periodo in cui, raccontano, speravano di riuscire ad accantonare certe cattive abitudini, o forse soltanto di riprendere il passo, dopo che gli era stata tirata giù l’accusa di essersi smarriti, i Kings of Leon cacciano fuori questo “Mechanical bull” e cercano di assicurarsi che la gente capisca l’aria che tira, che sono tornati qualche passo indietro, a quando le cose avevano preso la giusta piega. Sarà , ma io non speravo altro che risentire un pezzo come “Closer”, o qualcosa di molto simile. E invece no, “Mechanical bull” non fa altro che campare della formula esatta che gli ha assicurato un discreto successo, qualche anno fa, senza però la sincerità  di allora, con meno idee e quelle, le stesse, già  stanche da un pezzo.

Eppure si rischia di accontentarsene. Chè in fondo la ricetta era tanto funzionale da poterla riprendere quando si ha voglia e rimischiarla un po’ con altre cose che nel frattempo sono successe, senza correre il rischio di imbattersi in versioni apodittiche che taccino ipocrisia. E, in fondo, “Supersoaker” non ha nulla che non va, per esempio. Tanta chitarra, come sempre, e pure il retrogusto della rivincita. E nemmeno “Wait for me”, distesa e polverosa com’è che deve essere una ballata alla Kings of Leon. Nè “Family tree”, appena un po’ funk e ancheggiante Il problema, al di là  di qualche pezzo davvero poco azzeccato, è l’energia posticcia di cui è pervaso tutto l’album, il passo dinoccolato di chi vuole mascherare un’andatura incerta, e poi non ci riesce.

Tre stelle, alla fine, perchè nonostante un appeal da grande arena, nonostante un certo provincialismo (sì, perchè quello può contagiarti anche se sei americano) malamente celato, a me i quattro Followill continuano a stare simpatici.