La valutazione sul terzo album delle Peggy Sue, “Choir of Echoes”, si gioca su due questioni semplici semplici: il rapporto controverso che si ha con il concetto di revival e il margine di noia o esaltazione che si prova, a seconda dei gusti, in una stanza degli specchi al luna park. Mi spiego.
Si prenda il precedente atto musicale del gruppo di Brighton; è del 2012 il loro rifacimento della soundtrack di “Scorpio Rising”, corto del 1963, cult queer dal dubbio fascino cinematografico: lente inquadrature tremule su maschioni vestiti da biker, accompagnate però da una memorabile selezione musicale pop/rock made in the 1960s da “Fools Rush In (Where Angels Fear to Tread)” a “Hit the Road Jack” di Ray Charles.

Ora, il problema delle Peggy Sue ““ e di “Choir of Echoes” nello specifico ““ è che i loro album originali rispecchiano il processo di “Peggy Sue Play Scorpio Rising”: sono riscritture un po’ troppo scoperte di qualcosa di già  fatto e che noi abbiamo già  sentito. Se non da un giradischi autentico, l’abbiamo già  sentito dalle Dum Dum Girls ““ che del resto si sono a loro volta impantanate spesso sulla linea di confine (pericolosissima) fra “retrò” e “niente di nuovo”.

Siamo nella stanza degli specchi, appunto, in cui l’immagine di partenza è variamente distorta ma pur sempre una ripetizione dell’originale. Così, la traccia “Longest Day of the Year Blues” potrebbero averla cantata le Ronettes di “Be My Baby” senza necessità  di variazione, o qualunque trio doo-wop sullo schermo in bianco e nero della nonna (e infatti i dududuuu vocalizzati non mancano). E alla fine, va bene immaginare per qualche secondo di indossare una gonna a ruota al ballo della scuola del ’65 nel momento del lento in cui le luci si abbassano, ma non può essere sufficiente perchè Peggy Sue diventi un nome da ricordare.

Eppure in “Choir of Echoes” c’è una seconda linea stilistica, più shoegaze e personale, che forse Rosa Slade and Katy Young avrebbero dovuto privilegiare. è il caso dell’intreccio di chitarra e riverberi di “Substitute” e della specifica persistenza percussiva di “Idle”, scandita dall’invocazione fantasmica e rituale del refrain Let the devil find work for my idle hands; brani che si imprimono all’ascolto con un’incisività  purtroppo assente nel resto dell’album.
Per ora, le Peggy Sue non valicano la soglia della rilevanza e si perdono nella genericità  del termine “piacevole”.