C’è una mia amica che ogni tanto mi chiede di mandarle un po’ di musica, perchè lei non ci sta dietro e preferisce un consiglio a una scoperta solitaria. L’ultima volta che l’ho fatto, le ho girato varie cose e il link di “Rapt”, con un paio di righe scritte dalla stessa Karen: When I was 27, I crushed a lot. I wasn’t sure I’d ever fall in love again. These songs were written and recorded in private around this time. They are the soundtrack to what was an ever continuing love crusade. I hope they keep you company on yours.. Mi ha risposto nel modo in cui ti risponde chi ti conosce davvero: mi ha chiesto se ancora ascolto queste cose ““ ancora -, se questi dischi li vado a cercare o mi trovano loro. L’ha detto sorridendo, immagino, ma non ha torto. Non so se la canzone le sia piaciuta, ma a me sì.
Quando aveva 27 anni, Karen O. si è innamorata. Quando aveva 27 anni, Karen O. si deve essere fatta male nel modo banale di chi si fa male scontrandosi con un altro essere umano ““ qualcosa del tipo to crush/to crash, anche se i giochi di parole irrigidiscono tutti.
Così, Karen O. ha composto e registrato questo nastro qua. Potrebbe averlo chiamato la cosa, fino a che quest’anno è uscito con il nome di “Crush songs”, una specie di canzoni da una stanza accanto a “Show your bones” e chissà cosa ne ha fatto di questi pezzi in questi anni, se pensava di metterli in un disco o se ogni tanto, almeno, tornava ad ascoltarli. Che, poi, scrivere love is a fucking bitch o ricordare l’effetto che può fare un nome ““ di’ il suo nome, così che non svanisca ““ è la stessa cosa che dire show your bones: mostra le ossa, metti le braccia ben in vista sul tavolo: questa roba lascia il segno, questa roba deve lasciare il segno, sennò che senso ha passarci in mezzo? Tutte le notti in cui non hai dormito, tutti i giorni che non sembravano scivolare via, qualcosa deve rimanere. Questo disco è quello che rimane.
“Rapt” inizia con lei che scandisce il tempo: come si fa prima di buttarsi in un lago gelato, si conta fino a tre e si trattiene il fiato ““ Karen O. diventa una specie di poetessa underwater, luminosa come una stella. Ogni volta che penso a questo disco, penso a questa malinconia da fine estate, al suono di un nome che ti riporta back on the golden beach, mentre intorno l’acqua inizia a diventare troppo fredda, ti guardi le gambe e scopri che sono piene di segni che il sole ha reso permanenti e neanche ti ricordi di esserti fatta. Ci vuole un lessico da battaglia, ci vuole qualcosa che renda giustizia a tutto questo. Anche se tra qualche anno non lo ricorderai più.
Non so a quanti faccia lo stesso effetto: canzoni grezze, registrazioni imprecise, ma ancora ascolti dischi così? Sette anni fa compravo “The covers record” di Cat Power in quello che avevo eletto mio negozio preferito a Edimburgo, ed era il mio modo per dire arrivederci a qualcosa di sconclusionato a cui ogni tanto ripenso. Ogni volta che sento un pezzo di quell’album, mi viene da sorridere, come chi si rende conto che alla fine si sopravvive a tutto ed è pure meno difficile di quello che sembrava (non chiamate il dottore, canta in qualche canzone, non c’è bisogno). Karen O. diceva che non si sarebbe mai più innamorata e oggi lo può scrivere un po’ dappertutto, perchè è un pensiero che fa quasi tenerezza; questo non è un disco definitivo, questo non è il disco dell’anno, questo però sarebbe il disco che avrei comprato oggi in quella stessa circostanza e che alla fine probabilmente avrei finito per regalare. Dopo sette anni, Karen O. sorride e canta altre cose ““ ma anche queste, non è che pubblichi un disco e fingi che la cosa non ti riguardi -, con la certezza che alla fine certe cose sono meno infinite di così e che anche le crociate d’amore si concludono e nessuno ha vinto niente, ma nemmeno perso troppo. In un libro che amo molto c’è scritto: “Vista da qui quella storia non è mai successa”, chissà se Karen O. avrebbe sottolineato questa frase, ma penso di sì.
Credit Foto: Eliot Lee Hazel