In questo ultimo periodo è innegabile che abbiamo assistito ad una proliferazione di una certa musica da club, capace di spostarsi verso uno sperimentalismo via via più estremo.
Anche in Italia, con risultati piuttosto piatti e scarni, si sta registrando un’attenzione sempre maggiore verso un tipo di elettronica un tempo periferica.
Da un punto di vista qualitativo tocca però ancora una volta superare i confini e le Alpi per trovare un esperimento, così possiamo chiamarlo, che propone un tratto originale, aggirando degnamente il rischio insito in proposte del genere: cadere nel terreno della paraculata.
Peder Mannerfelt ha dimostrato nella sua carriera di poter giocare una buona partita su tutti i campi, con la capacità non da poco di rendere al massimo nei live. Per tali motivi la curiosità attorno “The Swedish Congo Record” ““ uscito per la Archives Intèrieurs e nato da un rarissimo 78 giri di registrazioni congolesi realizzato dal belga Armand Denis e pubblicato nel 1950 come “The Belgian Congo Records” ““ è stata altissima fin da subito.
Mannerfelt, appassionato di musica africana come il più famoso Shackleton, ha cercato di offrire una propria interpretazione del suono che forma la base del disco. Il tutto senza campionamenti, ma ricreando in maniera sintetica l’originale con l’utilizzo supplementare di aggiunte personali o riordinando l’esistente. Il tentativo di ricreare il ritmo, il suono della membrana animale dei tamburi utilizzati un tempo e le melodie mettono all’angolo i potenziali critici. Spesso l’abuso della campionatura svuota la tradizione folkloristica da cui derivano i frammenti iniziali, danze e canti diventano feticcio per quel colonialismo chic che tanti danni ha fatto nell’immaginario collettivo. Il senso di colpa del mondo occidentale è un fornitore di senso quasi totale vista la nostra capacità di autodefinirci responsabili a riguardo di qualsiasi fatto; Mannerfelt esce dal circolo vizioso proponendo un tributo contraddittorio, ma proprio per questo interessante e denso.
L’appropriazione culturale non è univoca, nè a volte strettamente biunivoca ed il produttore riesce a rimanere ben appigliato su un pendio spigoloso per buona parte di noi. La lotta per la liberazione avrà cambiato di senso eppure rimane presente in campi disparati, la consapevolezza che il percorso non ha un’unica direzione diventa centrale.
Una situazione inevitabilmente caotica si ripercuote sui suoni che compongono il disco: il disorientamento di sedersi ed ascoltare le tracce provenienti da un mondo altro offre una gamma di sensazioni ampia.
Ventiquattro pezzi per cinquantatrè minuti appesantiscono dei buoni spunti, i ritmi imperfetti si avvitano, si arrestano e non prendono quasi mai una forma canzone. D’altronde stiamo parlando di altre concezioni ed il ritmo viscerale viene comunque riportato al nostro orecchio. Se la transizione da un pezzo all’altro non è completa la fascinazione ci mette più tempo a crescere, tra elementi lo-fi e divagazioni completamente basate sul ricordo di una melodia che emerge lentamente.
Gli strumenti si mimetizzano come gli animali della savana, ci sono riti, balli e canti riportati con un digitale totalitario tra flauti, geografie lontane, tagli e rumori, legni, fauna e cori distorti in una ricerca dove il tratto africano è a volte ovviamente impossibile da riprodurre.
Tradizioni e nuova conoscenza si sovrappongono ed è piuttosto inutile soffermarsi sul singolo. L’atmosfera creata lega ogni cosa, lo fa a volte meglio e altre peggio ma la ricerca è in un certo senso enciclopedica e copre un largo spettro di situazioni.
Il risultato può soddisfare o meno, a seconda che sia sviluppata o no una propensione di ascolto su sonorità lontanissime dal pop, tuttavia è innegabile concordare su di un fatto: lo sforzo è apprezzabile, di gran lunga migliore rispetto a svariati libri di sociologia usciti recentemente.