Pare essere il travaglio personale derivato dalla paralisi ipnagogica lo spunto dal quale è germogliato questo fumoso nuovo Lp della californiana Chelsea Wolfe, il quarto ormai, se non consideriamo l’esordio autoprodotto “Mistake in parting” (di fatto mai ufficialmente rilasciato) e la raccolta di canzoni acustiche “Unknown Rooms”. E come quel limbo tra sonno/sogno e veglia, la figura di Chelsea emerge (o sprofonda nell’abisso, vedi anche la copertina) sempre sfuggente e sfumata, suggestiva e incerta, di quell’incertezza che però più che indeterminatezza, è mistero ed enigma (personale, cosmico e infine universale). E così quando le testate sottolineavano la connessione con il metal nella sua variante doom, e quindi plumbea e dall’incedere sfibrante, noi invece, pur rilevando alcune incursioni in una graniticità  solenne, non possiamo non notare come questa visione un po’ affrettata sia addirittura fuorviante. Chelsea dunque sfugge ad ogni definizione. Solo la fortissima sensazione di gothic music è presente, un gotico “all-around”, che sa di tutto (ma nella maniera meno qualunquista e banalmente eterogena possibile) eppure diverso da tutti. Ecco, in due cose questo album riesce: ad essere probabilmente il più vicino all’idea di Wolfe-sound che la musicista ““ presumiamo ““ aveva in mente; e inoltre quello che, incastonandosi perfettamente in quella dimensione perfetta, sospesa e incerta di cui parlavamo, suona come il più fisico ma anche il più oltremondano in assoluto.

Incredibile come poi la musicista riesca a dosare quello che possiamo definire il suo “personaggio” stregonesco (vedi i servizi fotografici, anche di moda) e nonostante questo esprimere nella sua arte una rara autenticità , un travaglio che supporrebbe una minore voglia di svelarsi. Supponiamo che la musica (e dunque l’immagine) della Wolfe sia dunque la testimonianza di un tentativo esorcizzante, un – ormai possiamo dirlo ““ maestoso sforzo per inchiodare per sempre demoni della mente alla croce dell’anima, indagando la solitudine, il dubbio, le limitazioni del corpo, la natura delle relazioni, l’abisso del sogno.

In una prima fase di questo “Abyss” si viene dunque travolti dal trittico “heavy” impestato di pece composto da “Carrion Flowers” ““ “Iron Moon” ““ “Dragged Out”: più che doom, parlerei dell’abile sovrapporsi di sabbiose brume industriali a paludi sludge presidiate da grigie falci di luna. I clangori metallici sembrano abbandonare “Abyss” già  qui. Si fugge ancora. Lì dove risuonava una lenta distorsione chitarristica portando con sè droni fuligginosi, ecco invece intervenire una zigzagante linea di archi e sangue, lì dove il folk ancestrale sorge in albe che sono tramonti, ecco un manto elettronico che veste l’ambiente musicale di sinistri presagi tecnologici, e così dopo essersi assuefatti al letargizzante pestare di una grassa batteria, ci si desta al soffice punzecchiare di drum machine rubate ad un trip-hop che in realtà  deve ancora venire.

A questo punto il disco prosegue secondo le coordinate di quello che definirei semplicemente un art-rock a tinte petrolio. “Maw” infila residue distorsioni su un tappeto sonoro che diviene molto più onirico e sfrangiato, intrecciandole a sibili lievi, vocalizzi-fantasma, e acusticismi notturni, lì dove quelle distorsioni “Grey Days” le soffoca sotto eleganti panneggi di terrea goticità , e “After The Fall” le usa solo nel ritornello e in coda (dopo un bridge di fuorvianti ghirigori robotici) per ripulire bruscamente lo scenario da impalpabilità  elettroniche e post-tutto. Meravigliose poi le più raccolte e folky “Crazy Love” e “Simple Death” che svelano il lato maggiormente intimista del progetto, mentre “Survive” (quasi novantiana nel suo folk-grunge di provincia desertica), “Color Of Blood” e la alquanto bislacca “The Abyss” uniscono sguardi auto-indaganti a feroci occhiate ad una luna più fulgida che mai.

Difficile dire se “Abyss” sia più riuscito dei precedenti lavori, ma nella nottambula ascesa della Wolfe (ancora diversa, ancora fedele a se stessa) non può che essere considerato un’altra ammirevole tappa.