Il Primavera Sound è in continua crescita e non sembra volersi fermare. La sua espansione costante si è manifestata quest’anno con l’aggiunta di un’area tutta nuova, adiacente al solito Parc del Fòrum: il Beach Club, che ha quotidianamente inondato il suo dancefloor di musica elettronica da mezzogiorno alle sei del mattino. Gli artisti coinvolti basterebbero per mettere in piedi un piccolo festival a parte (Erol Alkan, Todd Terje, Simian Mobile Disco, SOPHIE, per citarne solo alcuni) ed è sorprendente accorgersi di come si tratti quasi di eventi secondari rispetto al cuore della manifestazione.

Non potrebbe essere altrimenti: tra grandi nomi e chicche imperdibili, la line-up di quest’anno è stata probabilmente una delle migliori degli ultimi tempi. Il sold-out con qualche mese di anticipo e l’infinita marea umana attorno ai palchi dei concerti più attesi non fanno che confermare come la costante qualità  delle sue proposte abbia portato il Primavera a essere tra i più desiderati eventi di questo genere in Europa.

Forse anche troppo: le presenze sono praticamente raddoppiate rispetto al 2010 e ovviamente è qualcosa che si vive sulla propria pelle quando ci si accorge, per esempio, che un’ora di anticipo sullo show di PJ Harvey nel 2011 ci portava a stare nelle primissime file, mentre quest’anno ci ha permesso appena di trovare posto a una quarantina di metri dal palco. Situazione sicuramente inevitabile, ma i nostalgici come noi stanno iniziando a mugugnare (e già  studiano il fratellino minore, che da qualche anno prende vita a Porto una settimana dopo Barcellona).

ALESSANDRO CORTINI

Il nostro Primavera Sound inizia nel buio dell’auditorium, dove il tastierista dei Nine Inch Nails si presenta circondato dai suoi synth e supportato da proiezioni che coprono l’intera parete alle sue spalle. I loop e gli intrecci sonori, praticamente inseparabili dalle immagini accuratamente scelte e stratificate, ci conducono subito in un viaggio che si fa a tratti onirico e a tratti inquieto; rassicurante o rumoroso, etereo o incalzante. Un accenno di drum machine farà  capolino tra i layer di sintetizzatori solo nella parte finale del set. Si perde facilmente la cognizione del tempo, ci si trova completamente avvolti da quest’esperienza straniante, per risvegliarsi dopo un’ora in una sorta di leggero stupore. Uscendo dalla sala, riemergiamo alla luce del sole piacevolmente inebetiti.

AUTUMN COMETS

Questa band madrilena attira diverse persone sotto il grande Ray Ban Stage, che alle cinque del pomeriggio ospita realtà  più piccole rispetto agli orari di punta. A differenza di altri nella stessa situazione, questi ragazzi non sembrano trovarsi fuori posto e si divertono offrendo una prestazione carica e decisa che ben ripaga la fiducia ricevuta. Il loro sound impregnato di shoegaze non è particolarmente originale, ma intrattiene e regala bei momenti. Un buon set con un paio di pezzi notevoli, concluso con una coda rumorosissima e una chitarra lanciata contro l’amplificatore.

ALGIERS

L’Heineken Stage, l’immenso palco principale del festival, sembra invece essere il problema degli Algiers, sbattuti ben prima del tramonto in un contesto non ideale. La loro elegante creatura sperimentale, imbrattata di post-punk, gospel, elettronica, funk e chissà  cos’altro, renderebbe infinitamente meglio in spazi più ristretti e nelle ore notturne, non c’è dubbio. Franklin James Fisher è però abbastanza carismatico ed energico da condurre gli altri tre (che non sono figuranti, anzi) in territori dove trovarsi ben presto a proprio agio. Il pubblico li segue entusiasta, trascinato da una scaletta energica che sfrutta al meglio la situazione. Con un po’ di rammarico ci allontaniamo prima della fine, per coprire la lunga distanza che ci separa dai palchi dove stanno iniziando a suonare altri artisti che non vogliamo proprio perderci. Bravi Algiers, speriamo di poterli rivedere in un locale adatto.

JULIEN BAKER

La giovane statunitense si presenta sul palco con la sua Telecaster e un’espressione convinta e sicura. In poco più di mezz’ora suona qualche brano dal suo album d’esordio e noi la ascoltiamo rapiti e con la pelle d’oca. L’urgenza e l’intimità  che traspaiono dal disco vengono riproposte con la stessa intensità , senza sorprese che nessuno si sarebbe comunque aspettato. “Something” e “Rejoice” spiccano ovviamente sugli altri brani, ma il silenzio del pubblico durante tutta la performance dimostra quanto lei sia brava ad accarezzare quelle corde nascoste in tutti noi.

CAR SEAT HEADREST

Corriamo ad ascoltare il progetto di Will Toledo sul palco più vicino, arrivando solo leggermente in ritardo. La band ci offre i suoi brani retro-indie con quell’attitudine quasi svogliata che ci riporta appunto a certi anni ’90 che tanto vorremmo riavere indietro: qualche anno fa era toccato agli Yuck, per esempio, mentre ora ci appigliamo a loro. Anche qui non ci sono troppe sorprese (e qualcuno ci ha poi detto di essersi annoiato, peccato per loro), almeno fino al brano finale: Vincent si interrompe per far spazio alla seconda parte di “Paranoid Android” (sì, proprio quella) suonata fino alla fine. Loro gigioneggiano e noi ridiamo, prima che il brano ritorni sui suoi passi con la cavalcata finale di un discreto show che diverte e fa sgranchire le gambe.

DAUGHTER

Li vediamo da lontano, ahimè, per poter correre ad accaparrarci un bel posto per gli Air, che suoneranno subito dopo sull’altro palco principale. Elena Tonra canta senza sbavature: la sua voce è bellissima e il suo viso, perennemente proiettato sui maxischermi, è un concentrato di modestia e leggero imbarazzo. Forse non si rende conto di quanto sia brava e di quanto lo siano tutti e tre. I brani sono ben scritti, solidi ed eseguiti con precisione ed eleganza. Sbagliare qualcosa con queste qualità  è davvero difficile. Una sicurezza.

AIR

Forse una delle performance migliori dell’intero festival. Da subito si nota la cura del lato estetico: cinque grossi quadrati animati da led di diversi colori fanno da sfondo ai due in total white e agli altri musicisti di supporto. “Venus” apre un set che sembra un best of, ma che al tempo stesso scorre fluido e coerente. Il basso di Nicolas Godin è una bellissima sorpresa: non ricordavamo (forse stupidamente) quanto fosse elegante e tremendamente groovy, capace di donare a più di un brano una sua forma inconfondibile. “Highschool Lover” ci culla, “Sexy Boy” ci fa ballare. I suoni sono perfetti (come accade praticamente sempre sui palchi del Primavera, va detto) e tutto funziona alla grande. Tocca a La femme d’argent chiudere quest’ora di magia, e noi ci allontaniamo soddisfatti come dei bambini.

EXPLOSIONS IN THE SKY

Una buona metà  dello show è ovviamente dedicata ai brani dell’ultimo disco: stanno tutti qui i problemi del gruppo texano. Eccezion fatta per “Disintegration anxiety”, che nell’esecuzione dal vivo trova una sua identità  e una certa verve, le nuove composizioni suonano infatti mosce e già  vecchie (mentre il post-rock moderno sopravvive muovendosi in altre direzioni). Poi arrivano “Your hands in mine” e “The only moment we were alone” e tutto sembra bello come una volta, con le chitarre che si intrecciano splendidamente e fanno un sacco di rumore al momento giusto. Sembra chiaro però che gli EITS abbiano tanto bisogno di nuove idee per poter mantenere credibilità  all’interno di un genere che già  di suo fatica a reinventarsi.

TAME IMPALA

Complice l’uscita di “Currents”, il sound dei Tame Impala si è fatto meno ruvido rispetto al passato, perdendo un po’ di quel mordente che ci faceva gridare al miracolo negli anni scorsi. Kevin Parker conduce comunque la band in maniera egregia, dividendo la scaletta tra l’ultimo album e “Lonerism”. Il pubblico canta e si diverte, perdendosi in questa ventata psichedelica fino al blackout sonoro che costringe a una pausa di un quarto d’ora. Un paio di pezzi vengono quindi tagliati dalla scaletta prima che ci si avvii verso l’attesa “Feels like we only go backwards”, in un tripudio di falsetto e coriandoli.

LCD SOUNDSYSTEM

Siamo svegli ormai da venti ore ed è un po’ come se tutto il giorno avessimo raccolto le forze per quest’ultima fatica (perchè si fa fatica, al Primavera Sound: sappiatelo voi che non ci siete ancora stati). James Murphy si presenta in giacca, ma durerà  solo per il primo brano, “Us v them”. E sembra davvero che si tratti di noi contro di loro. Noi, che siamo qui stretti attorno a questa reunion e balliamo, cantiamo e ci esaltiamo a ogni rintocco di cowbell. Loro? Boh, tutti gli altri che non sono passati di qui! Si prende fiato e si riparte subito con “Daft Punk is playing at my house” ed è subito una festa collettiva, un rito vagamente ipnotico (perchè diciamocelo, quasi tutti i brani sono brevi, monotone idee ripetute all’infinito – eppure funzionano!). La band è senza dubbio in gran forma, ma è principalmente il suo frontman a trascinare tutti in questo vortice dance-punk: un’ora e mezza di pezzi che tutti aspettavano di sentire dal vivo da almeno cinque anni. “Everybody makes mistakes”, dice lui, e stasera pare sia toccato a chi ha deciso di non partecipare a questa festa rumorosa e gioiosa. Tutti a nanna col sorriso.

Foto di Eric Pamies