E’ l’anno dei ritorni illustri questo 2017. Al folto gruppo dei vari Slowdive, LCD Soundsystem, Grandaddy si uniscono i canadesi Wolf Parade che mancavano all’appello dal 2010, dopo tre ottimi album in appena cinque anni (“Apologies To The Queen Mary”, “At Mount Zoomer” e “Expo 86”) che hanno contribuito non poco al rilancio discografico di una Sub Pop che nei primi anni duemila aveva deciso di puntare sull’indie di Band Of Horses e The Shins. All’epoca i Wolf Parade erano considerati una specie di supergruppo, capace di mettere insieme due frontman come Spencer Krug (Frog Eyes, Swan Lake) e Dan Boeckner (Atlas Strategic, Handsome Furs, Divine Fits), Dante DeCaro (Hot Hot Heat) Hadji Bakara (che dal 2008 ha deciso di fare il professore universitario) e Arlen Thompson (sua la batteria in “Wake Up” degli Arcade Fire). Proprio i tanti progetti più o meno paralleli sono state tra le cause principali di una pausa di riflessione conclusa quando Krug, DeCaro e Thompson si sono incontrati nella remota Vancouver Island e hanno deciso di riprovarci (da quella reunion è nato “EP 4” uscito l’anno scorso).

Dopo aver approfittato in passato dell’ospitalità  concessa proprio dagli Arcade Fire quando ancora possedevano una chiesa riadattata a studio di registrazione vicino Montreal (la storica Pètite Eglise) i Wolf Parade si sono affidati a un produttore molto rispettato come John Goodmanson (Bikini Kill, Sleater-Kinney, Unwound). Musicalmente ripartono con tanta nostalgia (che assale soprattutto ascoltando le note giocosamente indie pop di “You’re Dreaming”) e molta voglia di suonare. A guidare il sound dei Wolf Parade sono, ancora più che in passato, le tastiere selvagge di Spencer Krug che fanno bella mostra di se in “Lazarus Online”, “Incantation” e in quel piccolo inno gotico che è “Flies on the Sun. Le chitarre di Dan Boeckner però si prendono una piccola rivincita in “Valley Boy”, che s’ispira a Bowie ma è dedicata al conterraneo Leonard Cohen. Quale sia il nuovo corso dei Wolf Parade lo si capisce soprattutto nella seconda metà  dell’album, con una “Baby Blue” che dura sei lunghissimi minuti ed è probabilmente il pezzo più completo tra gli undici di “Cry Cry Cry” schierando sassofoni, tastiere, chitarre e batteria in un disordine controllato in cui i nostri non si avventuravano da tempo.

L’anima più giocosa dei ragazzi di Montreal si scatena appieno in “Artificial Life” con tanto di coretti (a un “Uh uh love” così non si resiste) emerge prepotente in una maestosa “Weaponized” che gioca col glam e con accordi prog e il contrasto con la velocissima “Who Are Ya” fa capire che sono tornati sul serio. Al contrario di “Expo 86”, probabilmente il loro album più immediato, questo è un disco che sfrutta appieno le infinite possibilità  offerte da uno studio di registrazione moderno e lo fa nel modo giusto, senza manie di protagonismo nè esagerazioni. “Cry Cry Cry” è la naturale evoluzione dei Wolf Parade, che dopo sette anni ritroviamo diversi. Non più costretti a rispettare gli stretti dettami dell’indie (ammesso che lo siano mai stati) ma liberi di spaziare tra generi e stili musicali senza più freni. Ancora in grado di tirar fuori melodie mai banali e di scrivere testi di rara onestà  e dolce cinismo (“Am I an Alien Here”, “King of Piss and Paper”) in un disco divertente e pieno di sorprese.