E’ ormai passato qualche anno da quando, nel 1989, gli inglesi Telescopes uscivano con il loro debut album “Taste” catapultandoci in un vortice di psichedelia condita da puro ‘noise rock’, ‘shoegazing’ e chi più ne ha più ne metta. La band di Stephen Lawrie si presentava alle porte degli anni “’90 “mettendo sul piatto” sonorità  taglienti, sperimentali, rumorose e gracchianti, che sfociavano in risonanze influenzate proprio da quel periodo ‘No Wave’, nato nei maturi anni ’70, nel quale atonalità  e cacofonia facevano da protagoniste. Dopo una lunga pausa, iniziata successivamente alla pubblicazione del secondo album e durata quasi 10 anni, iTelescopes rinascono dalle proprie ceneri con un’idea molto chiara proponendo, dal 2004 fino al 2015, cinque album caratterizzati da una forte sperimentazione sonora.

Il nuovo ed ultimo lavoro del 2017, intitolato “As Light Return”, esce come il precedente “Hidden Fields” sotto la Tedesca Tapete Records ed è un concentrato di sonorità  che ci fa ripercorrere la storia della band. Canzoni quasi ipnotiche come “Down on Me” usano una “furba monotonia” come arma, studiata proprio per tenerci incollati all’ascolto in un viaggio attraverso atmosfere tenebrose e linee vocali baritonali. La perfetta commistione che ne deriva mi porta ad immaginare uno scenario distopico nel quale Lawrie e soci si ritrovano immersi nel caos generale con una calma quasi spiazzante, proprio come se si fossero dati appuntamento nell’occhio del ciclone per una tazza di buon ‘Tea Inglese’. Man mano che si procede all’ascolto ci si rende conto che songwriting e produzione non concepiscono nessun tipo di convenzionalità , mirano anzi alla pura sperimentazione grazie soprattutto a parti di basso distorto e feedback di chitarre impazzite, che risuonano come spilli pungenti nelle orecchie dell’ascoltatore ormai in pura balia della band.

Il gioco è fatto, il patto con il diavolo è stato ormai siglato. Dopo ormai 30 minuti abbondanti di ascolto, ci si trova ipnotizzati completamente dal brano finale “Handful of Ashes” che, con uno stile inequivocabilmente  ‘space rock’, ci satura le orecchie accompagnandoci per mano in un delicato stato di “trance” verso una dipendenza dalla quale non sarà  facile uscire. Mi trovo al minuto 40:11, alla fine del disco con una leggera malinconia in un silenzio che ormai risulta innaturale a cospetto di quei brani ipnotici, privi di qualsiasi melodia. Mentre sto per cliccare nuovamente sul tasto “play” per riascoltare l’album, mi accorgo di averlo già  fatto almeno 3 volte.

Un esperienza sonora sicuramente da non sottovalutare, un disco da ascoltare, riascoltare e custodire gelosamente.