Un artista prende spunto dalle situazioni estreme, dalle emozioni più difficili e complesse da assimilare, non ha bisogno della banalità , ma rimane saldo a cavallo tra realtà  e fantasia.

Johann Sebastian Punk riesce perfettamente in questo, con enorme leggerezza e naturalezza; noi l’abbiamo intervistato per capirlo al meglio, per svelarne i confini e comprendere come le sue debolezze diventino i contorni esatti delle sue melodie. Abbiamo parlato di cinema, coniato il neologismo Jazzofilia e scoperto come una confessione artistica è la forma più potente di benedizione per artista e ascoltatore.

Ci siamo immersi anche nei temi e nei suoni del suo ultimo album pubblicato ad ottobre: “Phoney Music Entertainment”

La prima domanda è una curiosità  sul tuo modo di lavorare: quanta fame di improvvisazione c’è nella tua musica? La tua attitude sembra molto jazzofila (non credo sia una parola corretta, ma spero renda bene l’idea)
Certamente il jazz rientra nei miei ascolti e nella mia formazione, ma nell’album è ben poco presente. Direi piuttosto che il mio tentativo è quello di fare una musica che colga una tensione da sempre presente nella musica pop, ossia quella tra una musica che ha origine nell’oralità  e discende da tradizioni afroamericane, e una musica fondata sulla scrittura, tipicamente europea. Dunque nella mia musica è presente sicuramente una componente improvvisativa, c’è più di una jam nell’album. Ma per vedere di cosa sono capace dovresti ascoltare i miei primi lavori, che risalgono a una quindicina di anni fa, molte sono delle (faccio autocritica: inascoltabili) lunghissime improvvisazioni.

Nei tuoi arrangiamenti c’è un culto dello strumento, cosa pensi significhi oggi per la musica italiana portare alla ribalta tanti arrangiamenti insoliti e mai banali?
Credo sia una necessità  storica, un ritorno a una ricerca che agli italiani non è mai mancata negli ultimi secoli e che adesso sembra fuori da ogni priorità . Ma l’uscita dell’era glaciale che stiamo vivendo potrebbe anche passare da un nuovo approccio all’arrangiamento, oltre che da fascinazioni “organologiche” come quelle che colpiscono da sempre me. Il suono di uno strumento può aprire a un nuovo mondo, e la storia della musica parla chiaro: i timbri fanno la differenza, portano al nuovo, danno vita a nuovi gusti e a nuove coscienze.

Siamo in tempo di classifiche finali e di somme da tirare, che album hai ascoltato in questo 2017 che pensi ti possano influenzare per il prossimo futuro?
Gli spunti che ho tratto sono quasi sempre di natura tecnica più che musicale. Nel senso che non ho ascoltato moltissimi album usciti quest’anno e quelli che ho ascoltato non mi hanno entusiasmato particolarmente. Mentre ciò da cui sono attratto è il mondo della produzione, ovvero un mondo nel quale io non posso entrare perchè non ne ho le competenze. Non immagini quanto mi piacerebbe avere l’opportunità  di realizzare un disco prodotto secondo i più alti standard correnti. Se devo invece segnalarti un buon disco uscito quest’anno ti dico un gruppo giapponese, i Gesu No Kiwami Otome, in Giappone sono famosissimi, in Italia mi domando dove andrebbe gente così brava.

Preferisci «Distruggere per creare, sempre! » o “Costruire per distruggere”?
Direi la prima, non ho mai amato quella band.

Tante volte quando sentiamo parlare di un disco pensiamo di trovarci dinanzi ad una “confessione” artistica, ma che significa per un artista confessarsi in musica?
Purtroppo non è sempre così. I grandi dischi che tutti abbiamo amato durante la nostra crescita sono dischi che traggono la propria forza da un’urgenza, dall’impossibilità  di contenere disagi e passioni. Adesso anche nel mondo cosiddetto “alternativo” i dischi sembrano scritti a tavolino, mi sembrano senza anima, scritti da persone che non hanno mai sofferto e che scrivono canzoni per raggiungere un obiettivo, non per una necessità . La mia è una necessità , i miei dischi sono colmi di confessioni e riflettono sempre la mia incapacità  di stare a questo mondo.

-Chi ascolta e scrive di musica tende a dare un manuale di istruzioni per capire un album, una chiave di lettura. Pensi che la “critica” sia ancora uno strumento utile per gli artisti?
Servono agli artisti per valutare le performance della propria promozione, anche perchè alcuni pezzi vengono letti più dagli artisti che dal pubblico. Questo anche perchè si riconosce sempre meno autorità  alla critica musicale, e io sono il primo a cadere in questa trappola. Ma è inevitabile. Chi sono i critici musicali oggi in Italia? Il panorama è scoraggiante: oltre a vecchi tromboni spesso incapaci di leggere il presente o smaniosi di apparire giovani a tutti costi e quindi esagerati nella sopravvalutazione di fenomeni di tendenza, vedo troppi giovanissimi alle prese con il giornalismo musicale senza averne competenze. In quanti conoscono la teoria musicale, indispensabile per giudicare formalmente la qualità  della scrittura un’opera musicale? In quanti hanno una completa conoscenza della storia della musica? In quanti, e questa è la domanda che più mi spaventa porre a me stesso, interessa davvero scoprire ed esaltare qualcosa di nuovo? A me sembra che lo spazio venga sempre dato a chi, come si suol dire, è in “hype”, e che dunque la missione stessa della critica musicale sia tradita dall’ansia di soddisfare un pubblico sempre più appiattito.

Ultima domanda, nella tua visione della musica sembra esserci un approccio cinematico e cinematografico, ci sono alcune colonne sonore anni “’70-’80 che ti hanno ispirato?
Sicuramente la musica da film rappresenta una grande fonte di ispirazione per me. Sin dalla nascita del cinema sonoro, la musica da film ha rappresentato una nuova possibilità  di concepire la scrittura musicale: basti ascoltare le colonne di Max Steiner, Erich Korngold, Miklos Rosza, Bernard Hermann”… tutti compositori in grado di far convivere elementi della musica colta con elementi pop, di riuscire a stupire grazie a grandi intuizioni melodiche ma senza la gabbia della forza canzone. Sono molti i compositori di colonne musicali che posso considerare come degli ispiratori, te ne dirò tre: Krysztof Komeda, attivo negli anni 60 (ha scritto colonne sonore per Polanski), Lubos Fisher, che ha scritto le stupende musiche di “Fantasie di una tredicenne” e Howard Shore, canadese, che ha scritto musiche per film di David Cronenberg, Tim Burton e Martin Scorsese e vinto l’oscar per quelle de “Il Signore degli Anelli”.