Gli Easter sono una band di Manchester. Dopo questa affermazione ognuno di noi assocerà  a questa città  una particolare band o artista, dai Fall ai New Order per non citare gli Smiths o la Madchester degli Happy Mondays e degli Stone Roses. Piຠrecentemente le bravate e i nuovi dischi dei fratelli Gallagher ci hanno riportato agli anni d’oro degli Oasis e del Britpop. Scordiamoci tutte le associazioni di quelle Manchester perchè gli Easter propongono un classico Alt Rock a stelle e strisce, alla Dinosaur Jr con affinità  ai Dream Syndicate post Paislay Undergound: un suono sostenuto dalle chitarre del leader Tom Long e Gavin Clarke con la parte ritmica nelle mani di Andrew Cheetham (batteria) e Rich Clarke a dare tempo ed energia con il suo basso.
La band ha alle spalle un altro LP,   Innocence Men, uscito nel 2012. Nel frattempo Tom Long ha collaborato con altri artisti ed il gruppo si è riunito un anno fa per comporre e registrare il materiale del nuovo album avvalendosi della produzione di Karl Sveinsson (Gnod/Vanishing).
L’album mostra le indiscusse qualità  tecniche della band. Dalla open track “I Lost my Pen” con la seconda parte del pezzo che esalta l’affiatamento tra le due chitarre -che è un po’ la caratteristica principale della struttura dei loro pezzi- fino alla conclusiva “Lost Clothes” con quelle “schitarrate” finali che mi hanno ricordato i migliori Weezer, l’album si fa ascoltare piacevolmente, apprezziamo anche l’estro del batterista Andrew Cheetham che di fare il semplice compitino, giustamente, non ne vuol sapere.
Trovo invece che il contributo delle voce sia un punto parzialmente debole, sia nella scelta melodica sia per l’energia che risulta troppo spesso debole.
Meander Lines sono quelle scorciatoie che le persone trovano per accorciare i percorsi pedonali studiati e progettati dagli urbanisti. Long descrive le esperienze personali degli ultimi anni come un aggrovigliarsi di fili con idee ed azioni che non hanno mai un percorso definito ma che spesso ne trovano di alternativi a quelli prefissati. Un po’ è quello che accade alle loro canzoni: sai come partono ma non hai la minima idea di dove ti porteranno.