L’aria è satura di nebbia e la luce soffusa delle candele che delimitano il sentiero nel quale sto camminando si riflette timidamente sulle cortecce degli alberi della foresta. Le cime dei pini centenari vengono sfiorate dal fascio di luce ciclico di quel faro sulla scogliera che cerco di raggiungere. Alzo lo sguardo al cielo mentre la brezza marina accarezza dolcemente i miei capelli spettinandoli davanti agli occhi, ed è proprio in quel momento che scorgo la Stella del Mattino che maestosa mi annuncia il sorgere del sole e l’arrivo imminente del giorno. Non mi resta che attendere, per iniziare a sognare.

Un sogno ad occhi aperti quasi ipnotizzato all’ascolto dell’ultimo disco degli Stella Diana, che ve lo dico (e forse si è capito) ultimamente non smettono di ammaliarmi. Se con “Nitocris” infatti erano riusciti a guadagnarsi un posto nel mio cuore, ora con “57” se lo conquistano definitivamente.
Il passaggio a liriche in lingua inglese ha fatto guadagnare parecchio al sound generale, anche se a dirla tutta il vero salto di qualità  è avvenuto grazie al lavoro assiduo dei tre veterani di Napoli che, in totale coerenza con forti principi “‘Do It Yourself’, sono riusciti a guadagnarsi assoluto rispetto nel movimento “‘Italogaze’. Una band che fa scuola, non solo apprezzata dagli ascoltatori ma anche elogiata dai vari addetti ai lavori che li considerano un vero e proprio punto di riferimento, quasi come gli antichi navigatori contemplavano i corpi celesti.

L’essenzialità  rappresentata da quel ’57’ poco visibile e poco identificabile su tela nera, introduce un concetto di semplicità  che la band usa come principio fondamentale. Anche attraverso gli stessi testi temi come solitudine, abbandono ed emarginazione stessa vengono trattati in maniera sublime e diretta, raccontando storie criptiche ai limiti della fantascienza. Un songwriting importante che mischia sì le molte influenze della band, ma che in realtà  è il risultato di una solida crescita artistica in un ambiente New Wave dalle ovvie contaminazioni Shoegaze. Certo, la componente Dream Pop è ben presente in questo disco, forse più protagonista rispetto agli altri lavori, ma di fatto nulla è scontato ne presenta il sapore di qualcosa di già  masticato. Basta ascoltare un brano come “Iris” e rendersi conto della totale padronanza della band nel plasmare dinamicamente varie atmosfere facendoci sognare dal primo all’ultimo secondo di ascolto.

Brani più ipnotici come “Ludvig” o “Do Androids” fungono invece da catalizzatore per un viaggio attraverso una dimensione onirica e ai limiti della psichedelia. E non è un caso se proprio in “Do Androids” sono ospitate le chitarre di Sebastian Lugli fondatore e chitarrista dei Rev Rev Rev , una partecipazione che dà  al brano un valore aggiunto in ambito sonoro rafforzando il concetto del termine Italogaze a conferma che questo movimento è ben reale e a tutti gli effetti una delle realtà  underground più interessanti del momento.

Un disco che pone gli Stella Diana come una delle band più appassionanti dell’attuale panorama italiano e allo stesso tempo conferma quel salto di qualità  avvenuto grazie a quell’insieme di intuizioni perfette in “Nitocris”. Sembra che la band abbia trovato il giusto equilibrio, la giusta dimensione, la giusta strada verso quel faro lungo la scogliera immersa dalla nebbia che cercavo di raggiungere nel mio sogno ipnotico.