è davvero deprimente pensare al fatto che ancora oggi, a distanza di quasi mezzo secolo dalla scomparsa di Jimi Hendrix, continui a esserci un dibattito tanto acceso relativo al “colore” della sua musica. Una domanda assillante: qual era il pubblico di riferimento del mancino di Seattle? I bianchi, come quei britannici che lo avevano adottato alla metà  degli anni sessanta e in quattro e quattr’otto lo ersero a idolo assoluto, o i neri, che nonostante il retaggio comune non si lasciarono mai davvero travolgere dalla “foschia viola”?

Sulla questione sono stati versati fiumi di inchiostro da parte di fior fior di esperti che, distratti dal marasma di chiacchiere, hanno sempre fatto finta di non accorgersi di un piccolo particolare: la risposta definitiva ai loro dubbi esiste dal lontano 16 ottobre 1968 ed è possibile trovarla in qualsiasi negozio di dischi che si rispetti.

Le sedici tracce di “Electric Ladyland” non sono opera di un essere umano, ma di un geniale alieno al quale furono sufficienti appena tre anni per lasciare un segno indelebile nella storia del rock. Un album talmente fuori dagli schemi da mantenere intatta la sua dirompente forza innovativa anche dopo cinque decenni tondi tondi dal giorno della sua uscita. Non ha alcun senso tirare in ballo generi, etichette o un concetto idiota e senza senso come quello della razza: quanto qui proposto da Hendrix, la sua Experience (il bassista Noel Redding e il batterista Mitch Mitchell) e il nutrito gruppo di collaboratori che letteralmente affollò gli studi di Londra e New York durante le fasi di registrazione abbatte qualsiasi barriera per proporsi all’ascoltatore sotto forma di un nuovo suono universale; una rivoluzione psichedelica destinata ““ ahinoi ““ a non avere più alcun seguito.

La precoce morte di Jimi Hendrix, scomparso in circostanze misteriose il 18 settembre 1970 a soli 27 anni, ha trasformato “Electric Ladyland” in un vero e proprio testamento artistico: il vangelo di un messia elettrico nato in una “notte illuminata da una luna rosso fuoco”. Il sacrificio del Bambino Voodoo sull’altare del progresso del rock ha segnato e continua a segnare il lavoro di innumerevoli artisti rimasti folgorati dal verbo hendrixiano. Se un veterano del jazz della stoffa di Miles Davis non avesse mai ascoltato i monumentali quindici minuti della jam blues “Voodoo Chile”, probabilmente oggi non avremmo un album fondamentale per la nascita della fusion come “Bitches Brew”.

Ma sono davvero tanti coloro che negli ultimi cinquant’anni hanno fatto proprie intuizioni e idee sparse qua e là  tra i solchi di “Electric Ladyland”. Difficile credere che protagonisti di epoche diverse dell’alternative R&B quali D’Angelo o Frank Ocean non conoscano il soul fantascientifico e sognante di “Have You Ever Been (To Electric Ladyland)”. E se Jack White non si fosse mai imbattuto nel “traffico cittadino” (“Crosstown Traffic”), quanto diverso suonerebbe il suo energico garage rock ultra-effettato?

Praticamente ogni traccia contenuta in questo album può essere considerata un piccolo assaggio di futuro: semi di elettronica, noise e ambient allo stato embrionale emergono nei brevi intermezzi “And The Gods Made Love” e “Moon, Turn the Tides…Gently Gently Away”, mentre l’esplosivo funk rock di “Gypsy Eyes” e “House Burning Down” anticipa di almeno un paio di anni la creazione ufficiale del genere per mano di George Clinton e dei suoi Funkadelic.

“Electric Ladyland” come brodo primordiale della musica moderna? Può sembrare un’esagerazione, ma forse è anche qualcosina di più. Semplicemente perchè alcuni suoi brani ““ “1983”…(A Merman I Should Turn To Be)” e “Burning Of The Midnight Lamp” su tutti –  presentano caratteristiche e sonorità  talmente eccentriche e peculiari che nessuno, neanche mettendosi di impegno, è mai riuscito a riprodurre in maniera convincente.

Un tripudio di blues, psichedelia, gospel, jazz e progressive sul quale la chitarra di Jimi Hendrix vola raggiungendo vette di intensità  uniche, tra imitazioni di voci umane (“Still Raining, Still Dreaming”), urla di gabbiani (negli ultimi secondi di “1983”…(A Merman I Should Turn To Be)”) e bombardamenti aerei (“House Burning Down”). Per non parlare di quelle parti soliste da brividi lungo la schiena nella cover di “All Along The Watchtower”, che spinsero un Bob Dylan solitamente restio ai complimenti a riconoscere la grandezza di questo ex paracadutista di umilissime origini che, prima ancora di compiere ventisei anni, poteva permettersi di “stare in piedi accanto a una montagna e buttarla giù con un colpo della propria mano”.

The Jimi Hendrix Experience ““ “Electric Ladyland”
Data di pubblicazione: 16 ottobre 1968
Tracce:  16
Lunghezza: 75:47
Etichetta:  Reprise, Polydor
Produttore: Jimi Hendrix

Tracklist:
1. And The Gods Made Love
2. Have You Ever Been (To Electric Ladyland)
3. Crosstown Traffic
4. Voodoo Chile
5. Little Miss Strange
6. Long Hot Summer Night
7. Come On (Let The Good Times Roll)
8. Gypsy Eyes
9. Burning Of The Midnight Lamp
10. Rainy Day, Dream Away
11. 1983…(A Merman I Should Turn To Be)
12. Moon, Turn The Tides…Gently Gently Away
13. Still Raining, Still Dreaming
14. House Burning Down
15. All Along The Watchtower
16. Voodoo Child (Slight Return)