Nella storia della musica rock e pop c’è una lunga tradizione di artisti che hanno offerto un’immagine diciamo particolare, spesso accompagnata da una grande capacità  di intrattenere e a volte anche di stupire.

Così ci siamo ritrovati di fronte alieni che provenivano da Marte, scienziati nerd, Punk spaziali, robots in giacca e cravatta, ma, che io ricordi, questo è il primo cow boy   mascherato nella storia del country rock, insomma una figurina che nel mio album personale ancora mancava.

Orville Peck è un particolare e moderno ambiguo artista country con voce  profonda con tante sfaccettature e dai mille segreti , un po’ Lone Ranger, un po’ moderno villain capace di scalzare Mefisto da miglior cattivo della saga di Tex Willer, ma che dietro alla sua maschera di pelle e frange nasconde un mondo che potrebbe sorprendere chiunque.

La linea melodica non è mai scontata e spesso anche nei momenti più allegri la presenza di una tristezza di fondo impreziosisce ogni brano, e mostrano una capacità  già  evidente in questo album d’esordio di incuriosire  e catturare l’attenzione dell’ascoltatore.

L’atmosfera country che influenza il primo ascolto diventa sempre meno importante e l’immaginazione ci trasporta in un atmosfera sempre più vicina a “Love,  Death  &  Robots”,    il  capolavoro  Netflix, allontanandoci da un western movie, il bisonte in corsa ha ora fili di ferro a posto dei tendini e chip che controllano una corsa senza soste, mentre Orville Peck su una collina   lo osserva alzare la polvere radioattiva e  attraversare un Nevada post apocalittico    .

Il brano di apertura” Dead of Night”, che era stato anticipato da un video  diretto da Michael Maxxis,  che rendeva chiaro fin   dall’inizio l’ambiguità  del progetto  Orville Peck,  è un gran pezzo, con la sua voce profonda e intensa che domina e un testo degno del miglior Morrissey,  seguito da “Winds Change” e da “Turn to Hate” che rimanda la memoria agli esordi dei The The di Matt Johnson, sia per la melodia che per la voce .

Per quanto molti brani presentino suoni e ambientazioni tipicamente country  come “Buffalo Run” ,   “Roses Are Falling”   0   “Take You Back (The Iron Hoof Cattle Call)” , con tanto di galoppate e abbondante fischiettare, resta forte la sensazione che ci sia molto altro ancora da dire e che siano ancora tutte da scoprire le chiavi di lettura, pur   restando evidenti le influenze di un sound e di un modo di interpretare a volte cosi familiare.

Si finisce così con il divertirsi a costruire un   gioco   dei paragoni, in primis con Elvis Presley , il cui fantasma incombe su tutto l’album  , ma anche con la naturale fusione tra Roy Orbison e Morrissey  , che tanto   influenza la scrittura  Orville Peck, e che fa venire in mente un specie di fusione alla   Gotenks,  o meglio ancora alla   Gogeta, creata appositamente per la ultimate cover    di   “It’s over” .

Se “Pony” e’ stato un gioco, allora devo dire che è riuscito bene, ma per il futuro sarà  necessario che Orville Peck  getti via la maschera e inizi a fare sul serio, per sfruttare appieno le sue capacità  che sono indubbiamente ottime.