Nel 1981 le Go-Go’s pubblicarono “The Beauty and the Beat”, famoso per essere stato il primo LP della storia scritto e interpretato da una band di sole donne a raggiungere la vetta della classifica degli album più venduti in U.S.A. L’album comprende la track “Automatic” che, trentasei anni dopo, nel 2017, inspirò altre tre ragazze di Los Angeles che decisero di chiamare la loro band proprio come il titolo di quel brano (cantato dalla divina Belinda Carlisle, perdonatemi la parentesi sentimentale). Figlie della scena DIY della Città  degli Angeli, la band conta anche una figlia illustre: la batterista (e altra voce) Lola Dompè è figlia del batterista dei Bauhaus, Kevin Haskins. Il trio si completa con Izzy Glaudini (Synths e voce) e Halle Saxon (basso).

Con questa artiglieria strumentale i più acuti avranno compreso che le ragazze non intrattengono le platee con mazurke ma neppure con pezzi guitar driven alla AC/DC. Le Automatic con il loro debut album “Signal” ci educano al loro sound che nell’ipotetico inferno post punk dantesco troverebbe una probabile collocazione nel girone krautrock (Neu!, Suicide) per il tipico ritmo motorik del genere teutonico anche se con ammicchi ai suoni più inglesi di Bauhaus e Joy Division). La batteria minimale, il classico basso ripetitivo, synths poco invasivi, quasi gentili, fanno da tappeto alle due voci di Izzy e Lola.

Voci quasi monotone che non tradiscono le parole dei testi che trattano di esperienze personali e dell’insoddisfazione e l’alienazione tipica di chi vive nell’era attuale. “Too Much Money” tratta della vacuità  e della meschinità  dei social media, “Signal” è l’allarme che dovrebbe avvertirti della nocività  e pericolosità  della vita mondana. La sensazione prevalente, enfatizzata dalle melodie vocali, è un’apparente disillusione, rassegnazione e apatia. Brani che potrebbero essere colonne sonore di film di David Lynch o Dario Argento, registi a cui le Automatic si ispirano anche nella realizzazione dei loro video anche grazie alla passione della Saxon per i film di culto. In “Strange Conversations” recita la modella Sarah Abney, dove una giovane donna si annoia, seduta sola ad un tavolo, bevendo birra mentre ascolta un gruppo di tre ragazze che si esibiscono in un locale semivuoto. Capiamo dal testo della canzone che il tutto avviene di martedì, serata non certo eccitante per le uscite serali e far baldoria con gli amici. La ragazza, forse aiutata dal paio di bionde appena bevute o forse spinta dalla noia, decide di alzarsi e inizia a ballare al suono della band, catturando l’attenzione dei pochi presenti. I testi delle loro canzoni sono anche ambigui, possono prestarsi a più interpretazioni. Il video di “Calling it” ci colpisce per questo mentre in “Too Much Money” compare John Dywer in un brano che effettivamente ricorda le atmosfere del suo gruppo The Oh Sees.

Un giudizio più che positivo è d’obbligo. L’album al primo ascolto sembrerebbe per un pubblico di nicchia ma possiamo assicurarvi, senza troppi timori ed esitazioni, che con gli ascolti le vibrazioni che si diffondono da questi brani vi penetreranno nelle ossa e nella pelle (per prendere in prestito le celebri parole di Finardi). A questo proposito mi piace citare Robert, un personaggio marginale di un famosissimo libro che tratta di fisica quantistica (di cui non ricordo nè titolo nè autore). Aveva una filosofia in materia di autodifesa del tutto personale: non girava mai con una pistola addosso, ma aveva sempre una granata a mano nella tasca della giacca. In caso di guai, strappava la linguetta, mollava la granata e ” che i pezzi cadano dove cadono”. Un po’quello che sta accadendo con l’album delle Automatic, alcuni pezzi stanno cadendo vicino alle nostre orecchie e ascoltarli è un immenso piacere!

Credit Foto: Logan White