è un urlo di rabbia contro l’iperconnessione e i suoi nefasti effetti sulle relazioni umane quello che viene lanciato dai Quicksand negli undici brani di “Distant Populations”. Il quarto album del trio newyorchese arriva a quasi quattro anni di distanza dal precedente “Interiors” ““ ovvero il grande ritorno sulle scene dopo un silenzio lungo due decenni ““ e segna un parziale dietrofront rispetto ai recenti tentativi di allontanarsi dal campo del post-hardcore duro e puro. Insomma, per farvela in breve, Walter Schreifels e compagni sembrano aver riscoperto l’antico furore di “Slip” e “Manic Compression”, macinando riff su riff da gustarsi al massimo del volume.

Da buoni veterani, tuttavia, i Quicksand sanno benissimo che è impossibile rinunciare a una certa dose di dinamismo se non si vuole pregiudicare quella vitalità  che, attraverso l’accumularsi di sfumature sonore cangianti, è il sale stesso del loro genere di riferimento. E allora ecco arrivare le chitarre acustiche, le atmosfere desertiche e i ritmi sintetici (quasi hip hop) di “Brushed”, un midtempo malinconico assai suggestivo; il mellotron che accentua i leggeri contorni shoegaze/space rock della dolce ma corposa “Phase 90”; i battiti elettronici che fanno da contorno alla triste melodia di “Compacted Reality”, uno strumentale brevissimo che aggiunge poco o nulla al piatto (ma di certo non infastidisce).

La parola d’ordine del disco è però soltanto una: impatto. I Quicksand di “Distant Populations” non vanno tanto per il leggero e ci aggrediscono immediatamente con le bordate post-hardcore dell’eccellente “Inversion”, con uno Schreifels indiavolato che sembra quasi prendere a sciabolate la chitarra elettrica. Di qui in poi, gli attimi di tregua sono praticamente inesistenti. “Lightning Field”, nonostante gli stop and go, è un treno in piena corsa che sferraglia per due minuti e ventiquattro secondi, prima di andarsi a schiantare contro quel muro di blocchi di granito che porta il titolo di “Colossus”.

La micidiale “Katakana” cresce di secondo in secondo, seguendo le evoluzioni dei come sempre affiatatissimi Sergio Vega (basso) e Alan Cage (batteria), il cui massiccio lavoro è in primo piano anche nel post-grunge acido e psichedelico di “Missile Command”. I continui cambiamenti di umore che regolano la tesissima “The Philosopher” e la strisciante “Rodan” fanno volare il pensiero ai Rival Schools, la “creatura” di Walter Schreifels più mansueta e tendente all’emo.

Le intricate soluzioni ritmiche e i riff feroci di “EMDR” sono invece il probabile frutto di un ascolto prolungato e attento dell’opera dei Soundgarden; certo, la band di Chris Cornell ha ben poco da spartire con il post-hardcore, ma il fatto che sia possibile percepirne l’influenza nella musica dei Quicksand è un segno tangibile della loro ricchezza e versatilità . Tanta sostanza e zero fronzoli per un altro, insperato colpaccio a firma Schreifels, Vega e Cage. Un album per annullare quelle distanze che, ahinoi, ormai tanto bene conosciamo, e lanciare una promessa: ci si rivede nella calca del mosh pit!